Nessuno tocchi Caino organizza due eventi per ricordare la sua fondatrice, Mariateresa Di Lascia, a settant’anni dalla sua nascita e trenta da quando è venuta a mancare. Il primo evento si svolgerà il 30 agosto nella Casa di reclusione di Opera, nel teatro intestato a Marco Pannella, insieme ai detenuti e ai “detenenti”. Il secondo si svolgerà il 7 settembre, presso l’auditorium Santa Chiara a Foggia, nella sua terra d’origine che ispirò il romanzo “Passaggio in ombra” con cui Mariateresa vinse, postumo, il Premio Strega.
Mariateresa Di Lascia, l’ho sentita le prime volte a Radio Radicale, che era sempre accesa nello studio di mio padre la mattina presto. Così è entrata nella mia vita di liceale insonnolita, con la voce giovane e vera che non mascherava niente e l’energia ostinata di attivista che la fece presto vicepresidente del Partito Radicale. Erano gli anni della nonviolenza, del digiuno che rivoluzionava il nostro monotono mondo, delle battaglie contro la fame nel mondo. A un certo punto mio padre andava borbottando che si era messa in testa di far riconoscere uno status giuridico all’omeopatia, per consentire al cittadino di ricevere un’informazione corretta sui metodi di cura ed esercitare, di conseguenza, un reale diritto di scelta. E io pensavo che lui si confondesse con i nomi come gli capitava spesso, che non c’entrasse niente Mariateresa Di Lascia con l’omeopatia, che fosse un’altra persona.
Sedevo tra i banchi della facoltà di Scienze politiche, qualche anno dopo, quando lessi che Mariateresa Di Lascia con Sergio D’Elia e Marco Pannella stava fondando Nessuno tocchi Caino e anche quella volta mi venne il dubbio di essermi confusa, mi chiesi se non fosse un’altra persona. Poi, nel 1995, vinse il premio Strega un romanzo che s’intitolava Passaggio in ombra, ne parlavano tutti e l’autrice era una certa Mariateresa Di Lascia. Pensai ancora una volta che i ricordi mi ingannassero, pensai che fosse un’altra e corsi ad accaparrarmi il romanzo. In copertina scoprii che era sempre lei, ma che purtroppo era sempre stata lei, perché era mancata pochi mesi prima, a soli quarant’anni. Ci rimasi male, ero delusa anche dalla mia pigrizia negli anni precedenti, e mentre assaporavo il romanzo in cui si difende “la libertà di non avere nessuna forma”, mi misi a leggere spasmodicamente di lei nel tentativo di afferrare tutte le sfaccettature di un diamante che mi sfuggiva.
Così, solo nel tempo, forse, sono riuscita a comprenderla, di certo dopo aver smesso di sorprendermi della sua ricchezza di passioni e impegni. Allora ho potuto apprezzare e rendermi conto di quanto fosse straordinaria la sua integrità, il fatto, cioè, che ogni azione condotta nella sua vita fosse riconducibile a una solida coerenza interiore, come le facce di un adamantino poliedro guardano al suo centro. Il fulcro di tutta la sua vita è l’attenzione incoercibile all’essere umano, nella sua irripetibile individualità. È l’uno che deve mantenere la sua singolarità nel partito e nella comunità; è l’uno che deve essere rispettato e tutelato nella condanna e nella pena sua propria; è l’uno che ha diritto di essere curato senza che la sua unicità sia erosa da un arido e astratto concetto di malattia.
Questo, secondo Maria Teresa Di Lascia, poteva realizzarsi attraverso un sentimento di comunità “religioso” (da religo), per dirla con Marguerite Yourcenar, ossia attraverso una comunità fatta di legami, che non scolorisce i singoli, ma li esalta e consente loro la piena realizzazione che non avrebbero mai da soli. Questo era il suo costruire, un modo di raccogliere e ascoltare i singoli per condurli insieme in qualcosa di più grande. E lei, autrice di vita e non solo di letteratura, sapeva crearne tanti di legami, grazie a quella capacità d’introspezione di cui resta ricca testimonianza persino nei personaggi delle sue opere letterarie.
Qui, come scrive Antonella Soldo, l’immaginazione opera come principio di unità per ricomporre i frammenti del reale sulla strada della comprensione. E il motore, aggiungo io, è sempre lo sguardo rivolto all’altro, al punto da riuscire a farsi vuoto e consentire di accogliere e lasciar fluire. Proprio come Mariateresa ha scritto per Elsa, protagonista del racconto Emilio, un amore divino: “Aveva già aperto dentro di sé il canale vuoto dove lasciava che gli altri passassero per poterli meglio ascoltare. (…) Poiché il vero senso della vita è che tutto è uno, ed Elsa aveva sempre cercato l’unità di cose”.