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Chi era Joseph Conrad, lo scrittore che denunciò gli orrori e l’ipocrisia del colonialismo bianco

Chi era Joseph Conrad, lo scrittore che denunciò gli orrori e l’ipocrisia del colonialismo bianco

Cent’anni fa in agosto moriva Jòsef Teodor Konrad Korzienowski, in arte Joseph Conrad, aristocratico polacco naturalizzato inglese, primo scrittore migrante (dopo Casanova, che scriveva in francese), oltre che esule e navigatore. Al ginnasio mi travolse un suo racconto di mare compreso nella antologia Sapegno (non ricordo quale). Era per me un Salgari sublimato. L’avventura esotica, ma con tutta la labirintica complessità psicologica che ogni ragazzino cerca avidamente. Anche i Promessi sposi dicevano che il cuore è un guazzabuglio, però a quell’età è difficile appassionarsi al romanzo meraviglioso e forse troppo saggio di Manzoni. A vent’anni, immerso nell’impegno e nella saggistica socio-politica, rifiutavo Conrad, troppo liberale, troppo conservatore, un autore deludente se ne volevi estrarre delle idee subito utilizzabili.

Infine: a trent’anni ero pronto per riabilitarlo. Pensai che era il più grande di tutti nella modernità: aveva elevato il romanzo d’avventura a letteratura alta, riversando dentro l’affabulazione trascinante una interrogazione etico-filosofica degna di Dostoevskij. Non ripasso qui l’intera sua opera, multiforme e caleidoscopica. Mi limito a segnalare due titoli. Anzitutto il suo romanzo più perfetto, Cuore di tenebra (da cui Coppola trasse Apocalypse now) dove svela il nucleo buio della nostra stessa civiltà e del nostro umanesimo (da leggere accanto al Nipote di Rameau di Diderot, alla Gaia scienza di Nietzsche e alla Terra desolata di Eliot). Denuncia l’ipocrisia e l’orrore del colonialismo bianco (nel Congo), ma – voglio ricordarlo – sempre difese l’Occidente dei valori contro l’Occidente reale, perché in ogni caso implica almeno una promessa di libertà (i suoi romanzi “politici”, L’Agente segreto e Con gli occhi dell’Occidente sono una dura requisitoria contro il dispotismo zarista ma anche contro le velleità rivoluzionarie che portano a nuovi dispotismi).

Poi il romanzo che personalmente ho più amato, La linea d’ombra (primo titolo: Primo comando), una narrazione di estrema radicalità sulla fine della giovinezza e sul concetto di esperienza (Jovanotti nel 1997 vi si ispirò per una canzone non indegna). Soffermiamoci su questo romanzo breve o racconto lungo. All’io narrante, giovane ufficiale stanco di navigare sulle navi a vapore e alla ricerca di nuove mete, viene offerta la prima occasione di comando di un veliero, che dovrà condurre da Bangkok a Singapore. Si tratta di una nave stregata, sulla quale pesa la maledizione del comandante precedente, morto misteriosamente. Lui accetta e si prepara alla traversata, durante la quale però avviene qualcosa di imprevisto. È pronto ad affrontare tempeste e tifoni, dove mettere alla prova le proprie qualità eroiche, il proprio coraggio e la propria intraprendenza (qualità pure celebrate da Conrad, accanto a lealtà e cameratismo), e invece non succede nulla.  Incappa in una spossante, interminabile bonaccia, mentre l’intero equipaggio si ammala di febbri tropicali, tranne lui e il cuoco.

A quel punto ha l’obbligo di non perdersi d’animo, di mantenere il controllo (su di sé, per non impazzire, e conseguentemente sulla ciurma), e di saper aspettare con pazienza e ostinazione su un mare spaventosamente immobile. Qual è l’insegnamento di Conrad? L’esperienza, sempre in agguato, consiste proprio in ciò che non avevamo pianificato. È per noi un trauma. Le uniche contraddizioni reali dell’esistenza sono quelle che non ci siamo procurate da noi, ma quelle che ci prendono di sorpresa, e delle quali non riusciamo a venire a capo nei tempi che decidiamo noi. È reale solo ciò che non è controllabile mentre ciò che è sotto il nostro controllo non è tanto reale (la stessa cosa ce la dice uno stupendo racconto lungo di Henry James, americano naturalizzato inglese, La tigre nella giungla del 1903).

Dalla bonaccia il giovane capitano non esce quando vuole lui, né la cosa dipende da un mero sforzo di volontà. Deve solo accettare la temporanea impotenza, deve attendere cogliendo però i segnali propizi, provando ad assecondare un ritmo delle cose che potrebbe volgere – ma non è garantito – in suo vantaggio. Niente di più. La verità – di qualsiasi cosa – è la morte dell’intenzione, scrisse una volta Benjamin. Scompiglia aspettative e progetti. In quel momento il protagonista conradiano scopre di stare attraversando la linea sottile d’ombra che separa giovinezza da maturità. Per diventare maturi bisogna aver capito che le cose non ci obbediscono: però dobbiamo essere vigili, capaci di attenzione e di responsabilità.

Molti della mia generazione capirono alla fine degli anni 70 che la loro invisibile linea d’ombra non si trovava tanto nei cortei, nelle facoltà occupate e negli scontri di piazza – dove ci sentivamo protagonisti – in quella rivolta così esaltante e spettacolare (che pure ha fatto progredire il nostro inamovibile paese), quanto nella nostra capacità di accettare l’inevitabile riflusso di quella spinta, la desolante bonaccia che si stava preparando, la annunciata fine della Storia e la apparente scomparsa del conflitto (in realtà il conflitto restava, ma si spostava dentro di noi). Fino a raggiungere Singapore. Non una lezione di inerzia o di quietismo, ma l’invito a riconoscere con disincanto il limite di ogni agire umano e insieme la necessità di scrutare la realtà – ingovernabile – per cogliere tutte le chance nascoste che pure contiene. Ecco, la Linea d’ombra, uscito proprio nel 1917, l’anno di quella rivoluzione russa che volle cambiare il corso del mondo, avrebbe allora potuto salvarci, a patto di leggerlo con purezza di cuore e senza ideologie preconcette.