L'incontro per salvare la nomina Ue
Mes e balneari, la resa di Meloni: Fitto ‘costa caro’
Fuori dalla maggioranza, per ottenere la vicepresidenza esecutiva Meloni dovrà cedere su tutto. Ed è già aria di crisi con Salvini: non ci sarà quota 41
Politica - di David Romoli
Non è stato un colloquio lampo quello tra il presidente del Ppe Manfred Weber e la premier Meloni: un’ora e mezzo e passa di faccia a faccia, preceduto da un colloquio con il futuro commissario europeo Fitto per poi concludere in bellezza la giornata con il vicepremier, ministro degli Esteri e soprattutto compagno di eurogruppo popolare Antonio Tajani. In realtà a spianare la strada per il summit di ieri a palazzo Chigi è stato proprio Tajani, in tandem con il capodelegazione azzurro al Parlamento europeo, Martusciello. A rendere urgente l’incontro era la necessità di stroncare sul nascere un possibile guaio che potrebbe portare i rapporti tra la nascente nuova Commissione europea e l’Italia sotto il minimo storico: il rischio cioè di vedere Fitto affossato o dalla stessa presidente von der Leyen o dall’Europarlamento.
Nulla di personale. Quella di Fitto, anzi, è una candidatura gradita sia alla presidente che al potente Ppe. Il fratello d’Italia viene da Forza Italia e vanta un glorioso passato personale e famigliare, nella Dc. Insomma, è di famiglia. Ma è anche stimato per la gestione del Pnrr, nonostante a Bruxelles i dubbi sulla tabella di marcia proliferino, ed è considerato un sincero e sicuro europeista. Il problema è il genere. La parità, aspetto considerato essenziale sia dalla von der Leyen che dall’Europarlamento, al momento è distante. Dunque, in un modo o nell’altro, quattro tra i commissari maschi indicati dai vari paesi verranno falcidiati. Bisogna garantirsi la copertura del Ppe per evitare che andarci di mezzo sia anche Fitto: con gli incresciosi precedenti della prima fase della partita europea, dall’ostracismo contro Meloni, neppure consultata sui top jobs, sino al voto contrario alla ripresidenza von der Leyen di FdI, l’incidente sarebbe grave, anzi gravissimo. L’ombrello del Ppe dovrebbe bastare a evitarlo, anche se l’ultima parola sarà detta solo a metà settembre.
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È chiaro che nel corso della lunga chiacchierata sono finiti sul tavolo anche gli altri aspetti problematici legati al commissario italiano. Le deleghe al Pnrr, materia che quasi gli spetta di diritto data la gestione del Piano italiano negli ultimi due anni, e alla Coesione dovrebbero essere certe e sono di per sé rilevanti. Quella al Bilancio è invece improbabile, essendo già stata ipotecata dal premier polacco Tusk col suo commissario Serafin. Il punto più critico è la richiesta italiana di una vicepresidenza esecutiva. Lì il percorso è accidentato non solo perché ambiscono a quella postazione in molti, dal lettone Dombrovskis che vuole riconfermata la posizione che occupava nella precedente commissione al francese Thierry Breton, ma anche perché l’uso e la prassi vogliono che i vice esecutivi, quelli che contano davvero, provengano dai gruppi “di maggioranza”, cioè da quelli che hanno votato a favore della presidenza e l’Italia non è tra questi.
La presidente potrebbe però cambiare marcia e usare come criterio il peso numerico dei diversi gruppi, riaprendo così la porta a Fitto in quanto esponente dei Conservatori. Sarebbe un passaggio politico importante perché sancirebbe dal lato della commissione lo sdoganamento dei Conservatori in termini di affidabilità europeista, da quello della premier uno spostamento drastico in area limitrofa alla maggioranza e quindi anche un ulteriore allontanamento dai Patrioti di Orban, Le Pen e Salvini. Va infatti da sé che questi ultimi, pur essendo numericamente in vantaggio sui Conservatori, verrebbero comunque tenuti fuori dalla vicepresidenze in virtù del cordone sanitario contro i sovranisti.
Certo l’Europa chiederebbe in cambio di una riapertura che oggi è per la premier italiana di vitale importanza alcuni passaggi non indolori. Il più immediato sarà la messa a gara delle concessioni balneari, tormentone che la Ue vuole chiudere un volta per tutte e stavolta la avrà vinta. Un altro, da affrontare più discretamente per non violare l’autonomia del Parlamento italiano, sarà probabilmente la ratifica della riforma del Mes, alla quale Bruxelles non ha rinunciato né intende rinunciare. L’ultima, che sarebbe comunque martellante dopo la procedura d’infrazione per debito eccessivo, è una manovra che provi subito la disponibilità italiana a soddisfare le condizioni imposte dalla procedura e dal nuovo Patto di stabilità.
A farne le spese rischia di essere soprattutto la Lega. La sua quota 41 ha poche possibilità di essere approvata. In compenso il Mef, finirà probabilmente per mettere le mani proprio nel comparto pensioni per fare cassa: l’allungamento delle finestre per chi va in pensione con 42 anni e 10 mesi di contributi, dagli attuali tre mesi a sei o sette, è una opzione che il ministro leghista dell’Economia considera molto seriamente nonostante il veto del suo stesso partito. Il terzo taglio consecutivo alla indicizzazione delle pensioni per fronteggiare l’inflazione, dal quale si salverebbero solo quelle più basse, è praticamente una certezza. Chi rischia di pagare più di tutti il riavvicinamento tra Ppe e Meloni, insomma, è ancora una volta Matteo Salvini.