Leonardo Bertulazzi ha avuto un ruolo nella “logistica del rapimento Moro” e una sua funzione di “alto rango all’interno dell’organizzazione”. È quanto ha scritto il ministero della Sicurezza argentino nel suo comunicato ufficiale, seguito alla revoca dell’asilo politico e al suo nuovo arresto. I vertici della Direzione centrale della polizia di prevenzione e gli altri uffici di polizia che hanno coordinato questa nuova operazione di fine estate, sono riusciti a confezionare una gigantesca bufala per impressionare l’opinione pubblica e la magistratura argentina e rafforzare l’inconsistenza giuridica della loro bravata, gonfiando a dismisura il ruolo e la biografia politica da lui avuta all’interno delle Brigate rosse di fine anni 70, diffondendo, addirittura, la notizia di un suo coinvolgimento nel sequestro Moro.
Il falso sillogismo
È noto che la base di via Montalcini 8, a Roma, nella quale fu custodito Moro durante i 55 giorni del sequestro, venne acquistata da Laura Braghetti (e per questo condannata all’ergastolo) con una parte della somma del sequestro Costa. Ergo, siccome Bertulazzi è stato condannato a 15 anni di carcere per complicità – del tutto marginali – nel sequestro dell’armatore genovese, se ne deve concludere che lo stesso ha acquistato per conto delle Brigate rosse quella base e quindi ha avuto un ruolo nel sequestro. Più o meno è stato questo il falso sillogismo abilmente insinuato nei comunicati ufficiali che hanno portato la stampa e i vari siti d’informazione, ormai in mano a persone professionalmente disinformate, a replicare una simile castroneria. È bastata una velina per cancellare evidenze processuali e storiche stratificate da decenni.
La compagnia di giro Mollicone, Calabrò, Fioroni
Fake ripreso da tutti i giornali, oltre che da una comica dichiarazione del responsabile cultura (e che cultura!) di Fratelli d’Italia, il parlamentare Federico Mollicone, citando un libro di Maria Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni (ex presidente della seconda commissione Moro), ha affermato che l’arresto di Bertulazzi può portare a «nuove evidenze nell’indagare sull’esatta ubicazione di Moro durante il sequestro». Per farla breve, secondo il Mollicone-Calabrò-Fioroni pensiero, Moro sarebbe stato trattenuto «in un box di corso Vittorio 42, che era nelle disponibilità della residenza diplomatica dell’allora Ambasciatore del Cile presso la Santa Sede», per intenderci un diplomatico del dittatore Pinochet.
Le evidenze storiche, oltre che le sentenze sulla base delle quali sono stati comminati decine di ergastoli e secoli di carcere, ci dicono che i soldi del sequestro dell’armatore Costa furono redistribuiti equamente tra le varie colonne brigatiste. La colonna romana, che agli inizi del 1977 era in fase di costruzione, approfittò della sua quota per acquistare tre appartamenti: uno in via Paolombini, l’altro via Albornoz e l’ultimo in via Montalcini. L’abitazione di via Palombini cadde nel maggio 1978 dopo la cattura e le torture inferte a Enrico Triaca, che gestiva la tipografia di via Pio Foà; via Albornoz non venne mai utilizzata perché solo dopo l’acquisto si scoprì che nello stesso pianerottolo abitava un carabiniere, quindi fu rivenduta; via Montalcini fu ceduta dopo il sequestro Moro. Di questo intricato giro di acquisizioni e vendite immobiliari Bertulazzi era totalmente estraneo.
Nel 1978 era in carcere
Nulla c’entrava per due ragioni: la prima perché faceva parte di un’altra colonna all’interno della quale, semplice irregolare, non ha mai rivestito ruoli di vertice o dirigenziali. Proveniente dal Lotta continua, entrò nella colonna genovese nel 1976 per restarvi poco tempo, perché – e qui veniamo ala seconda ragione – nell’estate del 1977 sugli scogli di Vesima, nell’estremo occidente genovese, rimase gravemente ustionato alle mani e al viso mentre armeggiava con del materiale incendiario. Dall’ospedale lo condussero direttamente in prigione dove restò per scontare una condanna di due anni. Durante il sequestro Moro, Bertulazzi era detenuto. Questa è la verità.
Duramente sanzionato nonostante il ruolo marginale
Scarcerato nel 1979 dopo un periodo di congelamento, fu reintegrato nell’organizzazione fino al disastro del settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco da dove riuscì a fuggire mentre gli altri due furono arrestati. Condannato a 15 anni di reclusione in contumacia per un presunto ruolo marginale nel sequestro Costa, attribuitogli da un pentito, e poi a 19 anni per i reati associativi, Bertulazzi è stato duramente sanzionato dalla giustizia genovese fondamentalmente perché era latitante. Una volta cumulate le condanne con la continuazione, la pena finale si è cristallizzata a 27 anni di reclusione. Una enormità per un regolare che non ha mai sparato un colpo di pistola. Raccontarla davvero grossa, dopo cinquant’anni, resta l’unica risorsa che il governo e le autorità di polizia hanno per riavere indietro questi esuli di un tempo che non c’è più.