All’81esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia si è arrivati finalmente alla seconda settimana di rassegna e a quello che viene definito il giro di boa. Tra il caldo asfissiante che affligge la laguna e una polemica sollevata dalla stampa internazionale sulle star che si sottraggono fin troppo a interviste ed attività stampa, i più attesi al Lido sono arrivati ed hanno lasciato il segno. È impossibile infatti non fare il nome della coppia di amici e colleghi più vicina al divismo che Hollywood abbia al momento: Brad Pitt e George Clooney, il cui passaggio veneziano, ha lasciato ben più di una scia che non stenta ad abbandonarci.
I due, tornati insieme sul grande schermo a 16 anni da Burn After Reading dei fratelli Coen, sono infatti i protagonisti di Wolfs – Lupi solitari, di Jon Watts, presentato fuori concorso. Una commedia d’azione dove le due superstar interpretano due lupi solitari “risolvi problemi” , citando Pulp Fiction, che vengono, per un apparente equivoco, chiamati a coprire lo stesso misfatto commesso da una esponente politica di rilievo. Nonostante il richiamo di due attori dalla eco globale, il film uscirà su Apple TV+ il 27 settembre e non avrà, come in un primo tempo era stato annunciato, una distribuzione in sala. Su questo aspetto Pitt e Clooney hanno dichiarato: “Siamo sempre molto romantici verso il grande schermo ma sulle piattaforme raggiungiamo più persone: è un equilibrio molto delicato, la storia si scriverà da sola”.
Da sempre sostenitore del partito democratico, Clooney, che a luglio tramite lettera pubblicata dal New York Times, aveva chiesto a Joe Biden di ritirarsi (come poi è accaduto) dalla corsa alla rielezione, ha commentato le ultime notizie dagli Usa: “La sola persona da applaudire è il presidente, che ha fatto la cosa più disinteressata che chiunque abbia fatto dai tempi di George Washington. Si sa che è molto difficile lasciar andare il potere, lo abbiamo visto in tutto il mondo. Di Biden va ricordato l’atto disinteressato”. E sempre di politica anche se involontariamente si è parlato grazie al primo film italiano in concorso passato nel weekend: Campo di Battaglia di Gianni Amelio. Ambientato sul finire della Prima guerra Mondiale e liberamente tratto dal romanzo La Sfida di Carlo Patriarca, racconta di un ufficiale medico, interpretato da Alessandro Borghi pervaso dal dubbio: seguire l’imperativo “la guerra è un dovere” oppure aiutare chi non vuole andare a morire al fronte?
Un film sulla guerra che non mostra la guerra: “Le immagini di guerra – spiega Amelio – sono usurate e sembrano paradossalmente irreali perché le vediamo troppo. Ormai siamo abituati a guardare la tv che in diretta tutti i giorni ci mostra bombardamenti e morti, che siano da Gaza o dall’Ucraina. Le immagini di morte vengono consumate in situazioni che non sono quelle della sala, che è un tempio. Questo è un film sulla guerra e non “di guerra”. Tocca dei sentimenti che vanno al di là del tempo e domande alle quali forse non sappiamo dare ancora una risposta. Ma un film non basta a fermare le guerre che nascono dalla bramosia di potere”. E sempre di guerra senza mostrarla, questa volta la Seconda guerra Mondiale al suo ultimo anno, parla il secondo film italiano passato in concorso alla Mostra, l’opera seconda di Maura Delpero, Vermiglio, che dopo il pluripremiato Maternal, realizza il suo “lessico famigliare” raccontando il piccolo mondo antico di una famiglia in un paesino del Trentino.
“Attraversando un tempo personale – scrive Delpero – Vermiglio vuole omaggiare una memoria collettiva. È un film sulla guerra senza la guerra, è fuori campo. La guerra è come un sassolino che arriva nell’acqua, che crea cerchi intorno, il film racconta le schegge della guerra, come questa influenzi la vita di tutti, anche di quelli che rimangono a casa”. Si accompagna alle star Tilda Swinton e Julianne Moore, sue protagoniste e inizia “una nuova era della sua carriera” il maestro spagnolo Pedro Almodovar con The Room Next Door, in concorso, suo primo lungometraggio in inglese. Storia di due amiche di vecchia data, di una che accompagna l’altra nella morte, decisa e non subita a causa di una malattia terminale. Sul tema della morte nel film dichiara: “Io sono più vicino al personaggio di Julianne in questa situazione, non comprendo come qualcosa che è vivo debba morire. In questo senso sono infantile nella mia percezione, immaturo, perché la morte è dappertutto, abbiamo la guerra. Il film parla di una donna agonizzante in un mondo che è anch’esso agonizzante. Questo è un film a favore dell’eutanasia – rimarca infine. La cosa terribile è che le due amiche si devono comportare come fossero delinquenti. L’accompagnamento alla vita è fondamentale come quello alla morte. Devi essere il padrone della tua esistenza ed è quello che fa la Marta di Tilda”. Chiamata in causa Swinton conferma: “Quello che descrive questo film è l’autodeterminazione, qualcuno che decide di prendere la propria vita e la propria morte nelle sue mani”.