L'estratto del nuovo saggio
Religioni in crisi e ideologie finite generano disumanità, razzismo e nazionalismo
Viviamo in una società anestetizzata nella quale impera il presente, la brama di “consumare” la vita e di autorealizzarsi. Nessuno pensa più collettivamente.
Cultura - di Mons. Vincenzo Paglia
Il declino delle religioni e delle ideologie nella società contemporanea
La vecchiaia non è solo età biologica, ma anche età spirituale, tempo di crescita interiore. E in questo senso va rivalutata e persino ripensata e riprogettata. Nel volume Destinati alla Vita (Edizioni San Paolo 2023, pp. 220, euro 18,00), mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, si occupa delle domande che riguardano il momento ultimo della nostra esistenza. L’Autore affronta la prospettiva cristiana di una vita che non finisce con la morte, del mistero della risurrezione della carne, della salvezza che va intesa come universale e non individuale, della beatitudine celeste. Di seguito un estratto della Prefazione.
Nel Credo cristiano, quando si afferma il futuro dell’uomo, non si parla semplicemente di uno stato di conservazione energetica e luminosa dello spirito e della materia, ma di una destinazione che, nel Simbolo niceno-costantinopolitano viene riassunta in due affermazioni: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà». Sono 1700 anni che i cristiani, ogni domenica, chiudono la proclamazione della loro fede con l’attesa di questa visione. I padri del Concilio di Nicea (325), convocati dall’imperatore Costantino, redassero questa sintesi del “credo” che avrebbe dovuto rappresentare la spina dorsale della fede cristiana in tutto l’impero. Nelle parole finali, la Chiesa intendeva affermare con solennità la destinazione – riscattata e compiuta – della vita donataci alla nostra nascita.
Da quell’inizio, ciascuno di noi ha riempito la sua propria vita di giorni e di anni sino alla sua conclusione (qualunque essa sia). E tutti siamo consapevoli che la nostra vita è il frutto della fatica e delle passioni, dei sacrifici e dei sogni, che abbiamo fatto, personalmente e insieme, per non cedere al nichilismo della morte e ai suoi frutti avvelenati. Purtroppo, gli uomini e le donne di questo tempo non sentono più il tema grave della destinazione: né di quella personale, né di quella dei popoli, né di quella dell’intera umanità. E quindi non “aspettiamo” più nulla, schiacciati come siamo in un presente, in un oggi, senza più domani. Purtroppo, però, senza destinazione, non c’è attesa e neppure desiderio. Per il cristiano, la consapevolezza di una destinazione significa invece cogliere il senso degli anni come una “iniziazione” alla destinazione finale.
Pierangelo Sequeri, che affronta con lucidità il tema, si chiede se possa esistere per l’uomo di oggi un futuro senza destinazione. In effetti, la questione che in genere più preoccupa non è la destinazione, la salvezza personale e dell’umanità, bensì la riuscita della propria vita e dei propri affari. Insomma, realizzarsi individualmente! Godere la vita! Questo è l’imperativo dell’esistenza o, se volete, il “vangelo” del mondo. Il rischio? Una folla di uomini e donne in un’affannosa corsa per realizzare desideri e cogliere opportunità per un illusorio godimento. In altre parole, “consumare” la vita, per “realizzarla”! I più vi cadono: affannarsi ad appagare le emozioni. Alla fine vince la rassegnazione. L’orizzonte della “destinazione” (della mia vita e della storia umana e dello stesso creato) è per sua natura drammatico, e sembra non avere più spiriti forti che l’affrontino, né parole appassionate che la raccontino. Intendiamoci, parlare di destinazione significa intendere qualcosa in più del semplice senso della vita. Quante energie abbiamo speso, nei secoli, sul tema dell’origine! E sul futuro? Scrive Sequeri: “Più che cambiato, il futuro sembra evaporato: perlomeno, dico, come orizzonte che orienta il senso della storia verso una svolta che sinteticamente ne raccoglie gli sforzi, inaugurando una nuova epoca dell’avventura umana”.
Anche le religioni e la stessa spiritualità si sono lasciate travolgere da una cultura individualista anestetizzante: devono consolare, rassicurare, smussare gli spigoli. Penso in particolare alle innumerevoli sette che, dall’inizio del Novecento, si sono moltiplicate e diffuse ovunque nel mondo: sono ormai scese nel mercato, si fanno concorrenza con varie proposte, mentre le Chiese storiche continuano ad avere la mentalità di sempre. Insomma, l’attesa della “parusìa” – che aveva caratterizzato l’inizio del cristianesimo – sembra essere scomparsa anche nella vita dei cristiani, assieme all’invocazione che chiude l’Apocalisse: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). Sono finiti anche gli stimoli delle grandi ideologie: la lotta per la giustizia comunista, come anche quella dei cristiani per la salvezza, non mordono più la nostra carne con le passioni del riscatto e della giustizia che cercano un senso ultimo del loro dramma. Le società sono anestetizzate. Sì, resta qua e là qualche movimento di protesta, ma tutti interni a un quadro in realtà dormiente. La fede cristiana si conserva negli angoli, come minoranza (non così creativa come forse vorrebbe, oltretutto: ma al più come obiezione di coscienza nei confronti di un mondo cattivo). L’anestesia della società ha avvolto la cultura di solidarietà: ormai vivere e pensare a se stessi è purtroppo una dolente normalità. Il Censis parla degli italiani come uomini e donne che vivono da “sonnambuli”.
Come cristiani non possiamo accontentarci dell’angolo confortato di una società anestetizzata: e magari di qualche complimento, articolo di giornale e premio che pure possiamo ricevere. La testimonianza della “vita eterna” non può ridursi a semplice obiezione di coscienza nei confronti del mondo immorale e godereccio. Né per questo dobbiamo ritornare alla militanza corporativa per la riconquista delle chiavi della città (la terza tentazione che il demonio prospettò a Gesù). C’è da dire che anche il largo e complesso mondo laico o dei non credenti vive un’asfissia di parole per la mancanza di visioni sul futuro dell’umanità. Il mondo è diventato globale, ma “liquido” (Bauman), senza punti stabili di riferimento. La cultura attuale è la prima nella storia dell’umanità in cui l’apertura a una eternità di pace non è né auspicata né indispensabile per rendere più vivibile la vita sulla terra.
Le conseguenze sociali del vuoto ideologico e religioso
Il migrante non a caso è diventato il simbolo della miseria globale: senza terra e senza casa. E da tutti respinto. La globalizzazione è quella della finanza e delle merci, non certo dell’umanità e dello spirito che cercano senso e destinazione. Crescono, invece, i muri, il nazionalismo, il razzismo, l’antisemitismo. Quale tristezza vedere la compiacenza nello scartare dalla società anziani, disabili, stranieri, carcerati…! Siamo ben lontani dalla visione che il Vangelo propone: le frontiere sono un’illusione e i muri non proteggono; solo i legami, l’alleanza, la pace, la mutua conoscenza fanno vivere con l’altro come fratello e amico. Il ripiegamento nazionalistico è una follia: eppure risorge. Ovunque. È una febbre che spinge a un futuro separato, a considerare gli altri diversi, estranei, financo nemici. Le ragioni della forza tolgono forza alla ragione: «La volontà di potenza è sempre un ateismo – diceva il filosofo russo Berdiaev – e la volontà di potenza è volontà di uccidere».
L’apostolo Paolo proponeva l’opposto: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Tutti – tutti gli uomini e tutti i popoli di ogni tempo – siamo uno, in Cristo Gesù! È la profezia che i cristiani hanno ricevuto perché a loro volta la proclamino sino ai confini della terra. (…). Il disegno originario di Dio è la destinazione di tutti i popoli alla pienezza della vita. Nella tradizione cristiana, il cosiddetto peccato originale (la famosa “mela”) non è una questione alimentare, è la disobbedienza a Dio per scegliere la propria volontà di potenza, il primato assoluto dell’io sugli altri, con il conseguente spirito di divisione, di separazione, di conflitto. Ecco perché solo una civiltà ecumenica, senza frontiere, è capace di sognare una città – la Gerusalemme celeste, descritta dall’Apocalisse – come comunità di destino. È quello che papa Francesco ha espresso in maniera egregia con le due encicliche Laudato sì e Fratelli tutti: una casa comune per tutti e una famiglia plurale che non esclude nessuno.
(…) Questa via – la via dell’amore, la via dell’ecumenismo universale, dell’umanesimo planetario – chiede di essere praticata il più largamente possibile e sin da ora. Tutti possono percorrerla perché è assieme particolare e universale. Permette che tutti possano incontrarsi riconoscendo le ricchezze di ciascuno per l’edificazione di tutti. È la storia della salvezza, l’unica storia umana. In questa via dell’amore c’è già tutto. Si può certo parlare di amore laico e di amore religioso, di filantropia e di amore sacro, un dibattito che ha attraversato i secoli, in particolare gli ultimi, quando, per fare un solo esempio, i termini “filantropia” e “solidarietà” venivano coniati esplicitamente in opposizione alla carità cristiana. Era l’ideologia (con l’inevitabile alto tasso di polemica) a dividere gli animi più che la sostanza delle cose. Ma l’amore – l’amore-agape – è sempre amore di Dio. La diversità è nel grado e nell’evidenza. La via dell’ecumenismo dell’amore trova il suo punto più evidente quando si manifesta piegata sui deboli, sui malati, sugli esclusi, sugli indigenti, sui poveri, sulla miseria umana.
È la via “santa” nel senso più ampio del termine, perché riesce a unire persone diverse nell’amore per i poveri. Così si trasfigura la storia, come insegna il samaritano della parabola di Luca. Ed era un non credente. L’amore lo spinge a commuoversi, a fermarsi e a farsi carico dell’uomo mezzo morto. L’amore (di Dio) è un’energia interiore che cambia chi lo vive e trasfigura chi lo riceve. Mai, quell’amore, permette di chiudersi in se stessi. È sempre “oltre”, vera energia di libertà da se stessi e dalla mentalità egocentrica. Tale amore contesta in radice l’assolutezza dell’“io”, del proprio clan e persino della propria appartenenza religiosa, compresa quella cristiana.
C’è l’altra pagina evangelica di Matteo 25, che il cardinale Martini chiamava il “Vangelo dei non credenti”, e che conferma la “via del samaritano”. L’evangelista scrive esplicitamente che colui che offre il bicchiere d’acqua è un non credente; eppure proprio lui, mentre professa davanti a Dio di non essere credente, si sentirà ripetere: «Quello che hai fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli l’hai fatto a me». In questa via amoris tutti possiamo ritrovarci, credenti in Dio e credenti solo religiosi, credenti laici e non credenti affatto. Ovviamente, non ci si ritrova per caso su questa strada, ma per scelta; una scelta che impegna. L’istinto (come fidarsi di esso!?) è tirare diritti per la propria via, quella dell’individualismo, come fecero il prete e il sacrestano della parabola; e conosciamo bene quanto sia attuale questa pagina evangelica. L’amore (soprattutto quello per i poveri) è una scelta che scende nelle profondità, che si abbassa fino in fondo. E lì, in fondo, si trova anche Gesù di Nazareth, colui che si è abbassato senza porsi alcun limite. Questo amore è il presente assoluto e l’assoluto futuro. Alla fine della storia, quando tutto avrà termine, non ci sarà più nessuna virtù umana, nessuna divisione, splenderà solo questo amore che sa abbassarsi.
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