Anatomia di un naufragio. Scelgo due fonti d’informazione: il comunicato della Guardia costiera e una nota Ansa. Entrambe dicono che una imbarcazione si è rovesciata nel canale di Sicilia, e che 21 persone (tra cui tre bambini) sono disperse, mentre 7 sopravvissuti sono stati soccorsi dalla Guardia costiera. Le fonti affidano la ricostruzione ai superstiti: partita l’uno settembre da Sabratha, la barca dei 28 migranti, sudanesi e siriani, il giorno dopo si sarebbe capovolta “in acque territoriali libiche” (quindi entro le dodici miglia dalla Libia), e i superstiti sono stati soccorsi dalla Guardia costiera “in acque italiane” alla fine dei successivi tre giorni.
Stando dunque a tale rappresentazione dei fatti, la barca capovolta avrebbe percorso in 72 ore ben 150 miglia nautiche, quasi 250 chilometri. Un siffatto resoconto non può certo provenire dai sopravvissuti, che mai sanno in quali acque territoriali si trovino (in mare non esistono barriere, né confini visibili). Non può che trattarsi, dunque, di una velina originata probabilmente dal Viminale, unico organo ormai autorizzato a diffondere informazioni sul soccorso ai migranti. Logica vuole, invece, che il naufragio sia accaduto non lontano dalle acque territoriali italiane, comunque nelle nostre acque di ricerca e soccorso e che, nei tre lunghi giorni di deriva, le vittime abbiano chiesto aiuto: certamente alle navi di passaggio e non sappiamo a quale autorità, ed è difficile credere che non siano stati individuati, in uno spazio marittimo sotto così stretto controllo.
L’aereo di ricognizione Seabird – uno di quelli che l’Enac sta cercando di fermare – il 2 settembre ha avvistato una barca con caratteristiche – colore, forma, numero di persone a bordo – simili a quelle dell’imbarcazione naufragata. Si trovava a 26 miglia nautiche dalle nostre coste (acque SAR libiche), è stata fotografata, dicono i volontari di Sea-Watch di averla segnalata ad Alarm Phone e, quest’ultima, “alle autorità”. Nessuno, però, è intervenuto, nessuno ha avvisato chi avrebbe potuto utilmente accorrere e la motovedetta della Guardia costiera è giunta soltanto quando i superstiti, “finalmente” in acque italiane, erano allo stremo (le immagini tratte dalla motovedetta sono terribili) e ormai sul punto di essere sommersi.
Questo succede da quando le direttive del governo italiano hanno sancito che una imbarcazione in navigazione e ancora galleggiante – nonostante sia stracarica di persone, senza conduzione sicura e mezzi di salvataggio – è materia di interesse soltanto per la polizia di frontiera, non più per l’organizzazione del soccorso. Se tutto ciò fosse vero (per ora, è largamente attendibile), qualcuno non deve dormire più sonni tranquilli: ci sono 21 nuove persone in fondo al mare, altri tre bambini. Questa nuova tragedia del Mediterraneo è, insomma, tutta da scrivere, e i primi a doverlo fare (senza omissioni e inattendibili verità) sono proprio le fonti istituzionali da cui sono provenute le informazioni diffuse dall’Ansa.
Sulle morti in mare dei migranti (una media stimata di cinque annegamenti al giorno), insieme al silenzio si è imposta infatti la guerra alle informazioni, ma anche alle parole e ai significati («Bloccati 63 migranti su un barcone» gridava un quotidiano online su un recente salvataggio: diceva “bloccati”, non soccorsi). Sul naufragio del Bayesian in rada a Porticello siamo stati sommersi da dettagli tecnici, supposizioni e, per ultimo, dalle preoccupazioni per il combustibile contenuto nei serbatoi. È giusto rivendicare almeno pari attenzione per un’altra tragedia in acque italiane, anche se, in questo caso, non accorreranno consoli, ingegneri navali e compagnie assicurative. Si tratta, anche qui, di vite umane. Si tratta sempre di noi. Una motovedetta 26 miglia le copre in un’ora.