Giuseppe Provenzano, parlamentare, responsabile Esteri nella Segreteria nazionale del Partito democratico, già vicesegretario PD: “Riconosceteci finché la Palestina esiste ancora”. È l’appello disperato che il ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese, Riyad al-Maliky, ha lanciato dalle colonne de l’Unità. Se non ora, quando?
Ora. Ed è già tardi. Il riconoscimento della Palestina è essenziale per ragioni profonde, che trovano oggi una rinnovata attualità e urgenza. Il 7 ottobre è stata l’occasione per tutti i nemici della pace in Medio Oriente di provare a regolare definitivamente i conti. E in questo quadro il Governo Netanyahu ha gettato la maschera, dichiarando che non permetterà mai la formazione di uno Stato palestinese. E invece, all’indomani dell’atroce attacco terroristico di Hamas, tutti abbiamo detto che solo la politica – solo la soluzione politica dei “due popoli, due Stati” – avrebbe potuto garantire il diritto a esistere e convivere in pace di israeliani e palestinesi. Sì, perché accanto al diritto a esistere di Israele, c’è un altro diritto che la comunità internazionale ha colpevolmente rimosso per anni. Ed è quello dei palestinesi ad avere un loro Stato, secondo quanto stabilito dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, libero dall’occupazione illegale. O si prende sul serio, quella formula, “due popoli due Stati”, oppure c’è una cosa persino più insopportabile della sensazione di impotenza che la politica internazionale sta trasmettendo alle nostre opinioni pubbliche sconvolte dall’apocalisse di Gaza: la vuota retorica o, peggio, l’ipocrisia. Abbiamo chiesto in Parlamento al Governo di seguire l’esempio di Norvegia, Spagna e Irlanda, e di battersi anche per un riconoscimento europeo. Ci ha risposto che serve il “mutuo riconoscimento”. Ma che vuol dire? Il mutuo riconoscimento, attraverso le lettere di Arafat e Rabin, è avvenuto nel 1993. Secondo Meloni dobbiamo aspettare il Governo di Israele, composto da estremisti di destra, fanatici religiosi e autodichiarati fascisti? Ma Netanyahu è colui che all’indomani dell’assassinio di Rabin ha affossato il Processo di Pace, che ha favorito Hamas per delegittimare e indebolire l’ANP, e dunque allontanare la prospettiva di uno Stato palestinese. E che oggi, esplicitamente rivendica di aver impedito la pace in passato e nega questa prospettiva per il futuro. Ed è precisamente per questo che chiediamo oggi il riconoscimento: per preservare l’unica vera prospettiva di pace da chi nega persino l’esistenza del popolo palestinese. C’è chi è arrivato a dire che questo sarebbe un favore ad Hamas. È il contrario. Hamas non vuole due Stati. E aggiungo che è proprio nel momento in cui abbiamo condannato con forza e determinazione la sua follia terrorista dobbiamo assumere con rinnovato vigore le ragioni della causa palestinese, per separarne il destino da quello di Hamas. È nel momento in cui i palestinesi vedono allontanarsi, tra le macerie di Gaza e le intollerabili violenze nelle Cisgiordania occupata, le loro legittime ambizioni, che abbiamo il dovere di stare al loro fianco, per non consegnarli alla disperazione oggi e domani a un nuovo terrore.
Alla mattanza di Gaza si aggiunge la colonizzazione forzata da parte d’Israele della Cisgiordania. Questo giornale l’ha denunciato: il governo peggiore nella storia d’Israele sta cancellando la Cisgiordania per realizzare il “Regno di Giudea e Samaria”. E il mondo sta a guardare.
Sono stato in Israele e Palestina a dicembre scorso, il giorno dopo l’interruzione della tregua. A Tel Aviv ho incontrato le famiglie degli ostaggi e in Cisgiordania ho incontrato una donna i cui familiari erano stati uccisi dai coloni mentre andavano a raccogliere le olive. “Cosa c’entrano le olive con la guerra al terrorismo”? Non posso dimenticarlo. Le violenze in Cisgiordania hanno rivelato in maniera ancora più lampante le reali intenzioni di Netanyahu e della destra estrema: la punizione collettiva dei palestinesi, la guerra a un intero popolo. Ben-Gvir, Smotrich, i Ministri estremisti che rappresentano i coloni, in questo quadro, diventano le figure chiave della politica del Governo, che si muove verso quella che Yair Golan, il nuovo leader della sinistra israeliana, definisce un disegno di “annessione”. Aggiungo che è proprio nell’opposizione a questo disegno, oltre che sull’accordo per il cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi, in Israele stanno riprendono fiato coloro che vogliono la pace. Ma sono d’accordo, è la comunità internazionale a dover reagire a tutto questo con vigore. E in questo senso, torna centrale il riconoscimento della Palestina. Che non ha un valore soltanto simbolico, come qualcuno dice provando a minimizzare. Ha un valore profondamente politico, perché riafferma i principi del diritto internazionale, richiamati di recente dalla Corte internazionale di Giustizia de L’Aja, sui confini, sugli insediamenti illegali e la necessità di porre fine all’occupazione.
Si dice: l’unica soluzione è una pace fondata su “due popoli, due Stati”. Ma a fronte della “giudeizzazione” della Cisgiordania, dove e come potrebbe nascere uno Stato di Palestina?
A definire i confini sono le risoluzioni delle Nazioni Unite. E aggiungo che è essenziale anche per la Cisgiordania che a Gaza torni il governo di un’Autorità palestinese, che certo non potrà arrivare sui tank israeliani. Per questo già a novembre avevamo proposto al Governo di lavorare nelle sedi internazionali a una missione di pace, con forze di interposizione sotto l’egida dell’ONU, con il coinvolgimento dei paesi arabi e il totale ritiro dell’Idf. Ci sono arrivati solo ad agosto, molti mesi e decine di migliaia di vittime innocenti dopo. E siamo ancora alle petizioni di principio. Sul come, è evidente che c’è bisogno di un processo di profonda rigenerazione dell’Autorità palestinese, una sua piena democratizzazione, l’indizione di nuove elezioni e nuove leadership. Ma, diciamoci la verità, anche Israele avrà bisogno di una profonda rigenerazione dopo la tragedia nazionale rappresentata da Netanyahu. Quel paese è lacerato come non mai, questo Governo è una sciagura e una minaccia per la stessa sicurezza di Israele. Netanyahu deve dimettersi. Servono anche lì nuove leadership. Solo così ci sarà una pace sicura e duratura. Nel frattempo, è la comunità internazionale che deve esigere e agire per la fine della guerra e garantire i due Stati.
Chi denuncia il genocidio in atto nella Striscia di Gaza e chiede sanzioni contro chi ne è responsabile, viene subito tacciato di antisemitismo. Il marchio d’infamia.
Ho trovato intollerabile il tentativo di criminalizzazione di una generazione che è scesa in piazza per reagire all’orrore, all’apocalisse di Gaza. Quei giovani bisognerebbe ringraziarli. E la condanna al Governo di Israele non può essere confusa con l’antisemitismo, altrimenti l’accusa dovrebbe essere rivolta a centinaia di migliaia di ebrei che manifestano contro Netanyahu. Ma attenzione, l’antisemitismo esiste, ritorna, lambisce anche alcune piazze. E va denunciato e combattuto con nettezza.
Ad esempio?
Non è accettabile leggere che una manifestazione a sostegno della Palestina inneggi al pogrom del 7 ottobre. Io ho visitato quei kibbutz al confine con la Striscia, lì i miliziani uccidevano innocenti in nome di “Allah u Akbar” non nel nome di “Free Palestine”. Tutto questo va detto con chiarezza, nell’Europa in cui si è consumata la Shoah. E ogni paragone con l’Olocausto mi sembra non solo inutile, ma assurdo e oltraggioso. Sul concetto giuridico di genocidio deciderà la Corte internazionale di Giustizia, così come sul mandato di arresto a Netanyahu e i suoi Ministri deciderà la Corte penale internazionale. Noi difendiamo l’autonomia di quegli organi, che sono acquisizioni fondamentali di un ordine internazionale basato su regole che devono valere sempre, per tutti. E invitiamo a rispettarne le decisioni e le prescrizioni, per questo abbiamo contestato il tentativo di delegittimazione a cui si è unito anche il Governo italiano. È una questione di credibilità, sul diritto internazionale e sul suo primato non ci possono più essere doppi standard. Ma è la politica che deve fare la sua parte. E deve farla prima dei giudici. È la politica che deve esigere il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, e non bisogna aspettare i giudici per appoggiare la proposta dell’Alto rappresentante Ue Borrell di sanzionare i ministri israeliani che invocano crimini di guerra e l’annientamento dell’intera popolazione palestinese a Gaza.
Il pacifismo ha una visione delle relazioni internazionali e delle regolazioni dei conflitti che confligge con la “diplomazia delle armi” che domina, ad esempio, sul fronte ucraino. Il pacifismo denuncia e propone. Eppure, nel migliore dei casi viene classificato come “imbelle testimonianza”, nel peggiore, come utile idiota al servizio di Putin o di Hamas.
Diciamoci la verità, dopo la criminale sciagurata invasione russa in Ucraina, c’è stata una difficoltà, persino una certa freddezza, in tutta Europa, nel pronunciare questa parola. Una freddezza che paradossalmente ha coinvolto anche il mondo democratico e progressista. Mi sono interrogato a lungo sul perché di questa difficoltà, e io credo che dobbiamo parlarci con franchezza. Da un lato, c’è stata un’inaccettabile criminalizzazione nei confronti dei pacifisti autentici, ad esempio di coloro che sono contro le armi sempre e comunque, e che dunque erano anche contro l’invio di armi in Ucraina: è una posizione che io non condivido, noi ne abbiamo tenuta un’altra, ma che merita dialogo, rispetto, confronto, e non appunto l’accusa di putinismo. Ma, d’altra parte, c’è stato anche qualcosa di peggio. Il tentativo di una minoranza di confiscare la parola pace e piegarla a narrazioni ambigue sulle ragioni della guerra imperialista di Putin, ambiguità che arrivavano a negare persino il diritto degli ucraini a difendersi e a resistere. Io credo che noi tutti dobbiamo recuperare il coraggio della parola pace, è il tentativo che stiamo facendo con la segretaria Schlein. Sapendo che nella storia europea non può disgiungersi dalla giustizia, che pace non può significare resa alla sopraffazione e alla violenza, che non è un’invocazione morale ma una costruzione politica e qui denunciamo l’assenza di iniziativa del Governo. Oggi, in Ucraina così come in Medio Oriente, chi deve farsi carico di costruirla, anche con quell’iniziativa diplomatica che è mancata e che noi chiediamo all’Europa, lo deve fare portando avanti le ragioni del diritto internazionale. È un modo per parlare anche al resto del mondo con le ragioni della convivenza e della cooperazione, non dei doppi standard e della logica di potenza.
Due anni di governo delle destre. In politica estera, che bilancio trarne?
C’è una propaganda secondo cui la nostra Premier è protagonista a livello internazionale, assecondata da certi commentatori che volevano fare di Giorgia Meloni la nuova Merkel. Ridicolo. Lei mostra sempre la sua vera natura, basta vedere i suoi amici in Europa. Ma poi è proprio sul piano internazionale che maturano i suoi fallimenti: siamo esclusi dalle discussioni che contano, marginali in Europa con lei che scommette sempre più su Trump.Ha fallito su Albania, Tunisia, il Piano Mattei non esiste. Di che parliamo? Ma la cosa che più mi inquieta è proprio il suo persistente silenzio sul Medio Oriente. Su questo, Meloni è letteralmente scomparsa. Non dico soltanto che manca una sua iniziativa politica, mancano persino le parole, le dichiarazioni. Forse pesa l’incapacità di prendere le distanze dal suo amico Netanyahu. Ma anche qui la sua ideologia è un danno per l’Italia. Perché tutto ciò non è all’altezza del nostro ruolo. Aggiungo che Giorgia Meloni oggi non è solamente la presidente del Consiglio italiana, ma presiede anche il G7. Tutti i nostri governi hanno cercato un protagonismo diplomatico. Ricordo che Draghi nel maggio del 2022 aveva presentato alle Nazioni Unite un piano di Pace per l’Ucraina. Non decollò, ma fu una mossa. Lei che sta facendo? Noi le abbiamo fatto una proposta, quella di convocare i leader del G7 per parlare di pace, invece di usare i consessi internazionali per parlare del testosterone delle atlete, lanciare attacchi alla stampa libera e ora cercare di capire come coprire lo scandalo di Sangiuliano.
E sul Medio Oriente?
Sul Medio Oriente non servono più vaghi appelli alla de-escalation, ma esigere il cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi, richiamare tutti al rispetto della legalità internazionale e promuovere una conferenza internazionale di Pace. Ma come si fa a non accorgersi che sul Medio Oriente il rischio è di allargare il fossato tra Occidente e resto del mondo. E dovremmo dire con chiarezza quale Occidente vogliamo. Perché l’Occidente non può essere Smotrich che vuole affamare un intero popolo, o quei ministri e i parlamentati di Netanyahu che difendono gli stupri dei prigionieri palestinesi, non è un governo che viola la legalità internazionale e agisce in evidente suo disprezzo. Io credo che l’Italia abbia già perso troppe occasioni per mostrare al mondo che non ha doppi standard e riguadagnare ruolo e credibilità. Le astensioni alle Nazioni Unite e il mancato riconoscimento della Palestina sono gravi errori. E allora, alle ragioni per il riconoscimento, ne aggiungo una che ha a che fare con la nostra storia. Questi errori e queste inerzie stanno determinando uno scivolamento pericoloso dell’Italia, che sta deragliando dai binari della sua grande tradizione diplomatica e della sua politica estera, venendo meno alla funzione che potrebbe e dovrebbe svolgere nel Mediterraneo. Il riconoscimento della Palestina lo avevamo già chiesto dal Parlamento nel 2015. Ora la battaglia politica su questo è ancora più attuale. Al Governo diciamo che oggi siamo già in ritardo. E che domani potrebbe essere troppo tardi. E nessuno potrà scappare dalle proprie responsabilità.