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Le Paralimpiadi sono un inno alla vita che fa a pezzi i tabù nazisti

Le Paralimpiadi sono un inno alla vita che fa a pezzi i tabù nazisti

Le Paralimpiadi di Parigi, che si sono concluse domenica, ci invitano una riflessione sul corpo umano e sul fascismo. La nostra civiltà ha sempre nascosto – con poche eccezioni – disabili e deformi, fin da Platone. Ma su questo tema un artista contemporaneo e la regista prediletta di Hitler, innamorata della grecità classica, ci conducono fin dentro l’essenza del fascismo. Proviamo allora a confrontare le opere di due artisti nati in momenti diversi del ‘900, entrambi sperimentali benché con visioni del mondo opposte: l’idea divergente di bellezza delle sculture di Marc Quinn, artista della Young British Art (gruppo inglese d’avanguardia formatosi negli anni 80) e quella funerea e di raggelante perfezione che ispira i documentari nazisti di Leni Riefensthal (della quale ricordo due documentari di propaganda: Il trionfo della volontà (1934, sul raduno del Partito Nazista a Norimberga) e Olimpia (1938, sulle Olimpiadi a Berlino).

Una contrapposizione che ci porta a definire l’essenza del fascismo, la quale non risiede tanto e solo nei caratteri attribuiti da Umberto Eco al cosiddetto “fascismo eterno”, e cioè tradizionalismo, nazionalismo xenofobo, primato dell’ azione sul pensiero, machismo, etc. Per Leni Riefensthal mi sono avvalso di un saggio su di lei che scrisse Susan Sontag, Fascino fascista (in Sotto il segno di Saturno, 1980). Cediamo subito la parola alla regista amica di Hitler: “Posso solo affermare di sentirmi spontaneamente attratta dalla bellezza. Tutto ciò che è puramente realistico, tutto ciò che è mediocre, ordinario, non mi interessa… Cerco l’armonia. Quando si produce armonia sono felice”. La regista tedesca somiglia a Emma Bovary del romanzo di Flaubert: disprezza infatti come lei la vita ordinaria e come lei è attratta da esperienze estreme ed inebrianti di cui ha appreso leggendo cattivi romanzi impregnati di romanticismo.

Ma vediamo in che modo la Sontag commenta la sua opera andando subito al centro della questione: “L’arte fascista esibisce un’estetica utopica – quella della perfezione fisica. Pittori e scultori sotto il nazismo raffiguravano spesso il nudo, ma era loro proibito di mostrare qualsiasi imperfezione fisica”. Certo, la retorica del bello e del sano propagata dalla Riefenstahl, nota la Sontag, è molto più sofisticata di quella che appare generalmente nell’arte visiva nazista: “Apprezza una vasta gamma di tipi fisici – in materia di bellezza non è razzista – e in Olympia mostra anche momenti di sforzo e fatica”. Ma l’imperfezione viene accettata solo quando è il prodotto di uno sforzo fisico, teso a conquistare la vittoria. Nel libro di fotografie – L’ultimo dei Nuba – da lei realizzato negli anni 70 sulla popolazione africana dei Nuba, nel Sudan. Certo, lei non è razzista, e infatti ammira quei “corpi muscolosi depilati e decorati da cicatrici; cosparsi di una cenere sacra color grigio perla”(che allude esplicitamente alla morte). Ma li ammira in quanto “emblemi della perfezione fisica”, e poi come coraggiosi lottatori che antepongono la lotta, il primato nella lotta, a ogni tipo di relazione. Nonostante i Nuba siano neri, non ariani, il ritratto che ne dà Riefenstahl evoca il tema principale dell’ideologia nazista: il contrasto tra il puro e l’impuro, declinato anche come contrasto tra vitalità selvaggia e intellettualismo.

Al tempo di Hitler erano gli ebrei a rappresentare, con il loro spirito critico, la corruzione, mentre oggi i Nuba sono corrotti dalla civiltà dei consumi. A ciò si aggiunga che nella cultura dei Nuba “il cerimoniale più entusiasmante è il funerale”. Viene in mente il “Viva la muerte!” dei falangisti spagnoli. Le sculture di Quinn riproducono corpi imperfetti, corpi di persone menomate e disabili, prive di arti. Forse la sua opera più famosa è “Alison Lapper incinta”, una enorme statua di marmo bianco di Carrara esposta a Trafalgar Square, a Londra, che riproduceva il corpo privo di braccia di una donna gravida, suscitando scandalo e proteste. Queste sculture richiamano subito le statue dell’antichità classica. Quinn ci obbliga a riflettere sul concetto stesso di bellezza, intesa non più come armonia, proporzione, perfezione. Ciò che in genere viene catalogato come mostruoso, un corpo senza arti, ritrova qui sorprendentemente una bellezza abbagliante, al tempo stesso disturbante ed enigmatica.

La nostra prima reazione può essere anche di orrore per la diversità ma poi, se non distogliamo lo sguardo, scopriamo che l’armonia si ricostituisce in una deviazione dalla norma. Occorre però non distogliere lo sguardo, proprio al fine di rieducarlo. Uno sforzo in direzione non tanto dell’umanitario e della pietas, quanto dell’immaginativo, della rivolta contro il senso comune. In fondo tutta l’arte non è altro che contestazione dell’ovvio e del cliché. E allora torniamo all’essenza del fascismo. La democrazia, come sappiamo, si fonda su una mezza bugia, o pregiudizio, e cioè la convinzione che ogni cittadino sia sufficientemente maturo e responsabile da riconoscere il bene comune, che ognuno sia il miglior interprete dei propri interessi in armonia con quelli collettivi.

Il fascismo si fonda su una bugia integrale: la negazione del limite, della imperfezione e infermità originaria dell’essere umano, della sua caducità e precarietà (solo riconoscendo il limite oscuro dell’esistenza, la morte, potremmo prenderci cura di tutto ciò che resiste anche solo per un po’ a quel limite, della ginestra leopardiana, e ritrovare un senso di fratellanza). Cancellare il limite è cancellare esattamente ciò che definisce l’umano. Goebbels si sentiva, in quanto politico, un “artista”, con il compito di “rimuovere i malati e creare libertà per i sani.”. Il fascismo non capisce, o finge di non capire che la forza contiene la debolezza, che il coraggio contiene la viltà, che la vittoria contiene la sconfitta, che la salute contiene la malattia, che la perfezione contiene l’imperfezione, che la purezza contiene l’impurità. Ciò lo condanna all’irrealtà: i valorosi, indomiti soldati della Wermacht a Stalingrado, dopo mesi di gelo, invocavano la mamma piangendo. In quel momento non somigliavano alla stirpe regale dei Nibelunghi, e anzi sperimentavano traumaticamente il limite della condizione umana.

Mentre la forza è destinata a passare, proprio la debolezza, la vulnerabilità – il nostro essere totalmente esposti al caso e alla sventura, in ogni momento – è quello che ci unisce tutti, che costituisce il nostro destino comune. Marc Quinn non è solo un artista visionario, ma si propone come uno dei filosofi morali del nostro tempo. Bisognerebbe dargli un Nobel. Ci aiuta a liberarci dall’ossessione della purezza e della perfezione (entrambe irreali), dall’idolatria della normalità e della conformità alla media statistica, dalla paranoia della sostituzione etnica, dalla paura del divergente. Ci ricorda che la vita – multiforme, eternamente cangiante – comprende molte più cose di quello che si contempla nell’aria rarefatta delle impervie montagne del Sudan o nelle geometriche adunate di massa del nazismo.