Tutte le strade della ricerca “storiografica” sulle magagne della Repubblica portano a Roma, precisamente al numero quattro di via delle Botteghe Oscure. Sul Corriere della sera Paolo Mieli spiega a suo modo – il solito – anche una “peculiarità” dell’Italia, che, caso unico al mondo, vede nelle edicole andare a ruba i calendari con le immagini del Duce. Egli si pone la domanda: perché tale culto per il corpo di un autocrate è impensabile a Parigi, dove nessuno si attarda ad acquistare i ritratti di Pétain? E si dà la risposta, che è la stessa per ogni questione pubblica: l’enigma si scioglie solo perquisendo il “Bottegone”.
Nella sua esplorazione genealogica Mieli ricorre alle carte della storia, o meglio al giochino della carta vince, carta perde. La prima scelta attribuisce infatti la reviviscenza del regime mai ripudiato nella mentalità degli italiani all’amnistia di Togliatti, così generosa nel condono verso la burocrazia in camicia nera da impedire di estirpare il germe del male. La seconda opzione, se si intende risolvere “il grande mistero” di un mancato rigetto popolare dei crimini del Ventennio, riconduce ugualmente allo zampino del segretario del Pci, che ricevette i responsabili di un eccidio di fascisti compiuto subito dopo la Liberazione da alcuni partigiani comandati da “Teppa”.
Per assecondare l’imperativo di scalciare il leone morto, Mieli percuote il Migliore una volta in quanto troppo incline al perdono dei camerati e l’altra poiché complice di uno spirito di vendetta che dal carcere di Schio passando per il triangolo emiliano arriva fino alla barbara uccisione del direttore di Regina Coeli. Difatti l’ultima trovata del Corriere è che persino dietro il linciaggio di Donato Carretta covasse il disegno, naturalmente rosso, di coprire qualche prigioniero politico da lui furtivamente depennato dalle liste di viaggio con destinazione Fosse Ardeatine.
Avventurandosi in simili congetture, che svolazzano senza timore di confutazione, Mieli ricalca le medesime ossessioni della destra radicale francese, la quale per colpire il movimento resistenziale ha gonfiato l’entità della cosiddetta “épuration sauvage” inventando una rinascita del terrore comunista contro i docili collaborazionisti tramutati in “gens très bien”. La storica Annie Lacroix-Riz (La non-épuration en France, 2019) ha smontato pezzo dopo pezzo le elucubrazioni delle firme revisioniste che, al fine di una piena riabilitazione della “parte buona di Vichy”, hanno ricamato sulla “purga selvaggia” accanitasi su undicimila malcapitati, sulle esecuzioni di donne per la loro “collaborazione orizzontale” (legami affettivi o sessuali) con i nazisti.
Sul sangue dei vinti sgorgato per mano “des violences communistes” successive alla “Libération” si è scritto pure in Francia, laddove peraltro i provvedimenti generali di clemenza per i seguaci di Pétain furono addirittura tre nel dopoguerra. E però del rapporto causale stabilito con metodo storico da Mieli tra questi fenomeni e la reputazione del maresciallo amico del Reich non c’è traccia. Non sarà che a Parigi la requisitoria sulle “furies rouges” non è diventata una controstoria venduta in overdose nelle reti pubbliche e private, alimentata dai grandi giornali e dall’editoria più influente? Finché in servizio permanente c’è un Mieli che con pochi archivi e molto studio (televisivo) produce egemonia, a cosa servono le fiction o i programmi della Rai meloniana, la manovalanza culturale delle fondazioni e dei musei, le mostre a impulso ministeriale su correnti e autori prediletti dalla presidente del Consiglio?