L'intellettuale dell’ebraismo italiano
Intervista ad Anna Foa: “Oggi al governo c’è l’anima nera di Israele, questo sionismo non può convivere con la democrazia”
«L’anima democratica ha combattuto contro la riforma giudiziaria di Netanyahu senza porre il problema dell’occupazione, che è il grande problema, e quindi della fondazione dello Stato palestinese. Dall’altro lato, con il potere è cresciuta la forza dell’anima messianica, quelli che vogliono la Grande Israele»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Le due anime d’Israele, il rovello della diaspora e ciò che resta dell’utopia sionista. L’Unità ne discute con una grande intellettuale dell’ebraismo italiano: Anna Foa. Il 1° ottobre sarà nelle librerie il suo libro, quanto mai di drammatica attualità, Il suicidio di Israele (Laterza).
Da quel tragico 7 ottobre 2023 Israele è un paese in guerra. Ed è anche, sempre più, un paese lacerato tra le sue due anime. Una spaccatura che spesso è sottaciuta o sottovalutata dalla stampa di casa nostra.
Si guarda e si racconta Israele come se fosse un tutt’uno. Invece, nei nove mesi che hanno preceduto il 7 ottobre, abbiamo avuto delle grandissime manifestazioni per la democrazia in Israele, cose mai viste altrove. In nessun paese al mondo è successa una cosa del genere. Adesso queste manifestazioni sono riprese, centrate sulla questione degli ostaggi e sulla fine della guerra a Gaza. Sabato scorso c’erano 400-500mila persone a Tel Aviv. Immaginate un paese piccolo con mezzo milione di persone in piazza in una città. Le foto sono impressionanti. Esiste un’opposizione.
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Ed è una delle due anime di Israele. E l’altra?
Esiste una fazione che per troppo tempo è stata liquidata, ironicamente, come i messianici. Una storia iniziata con la guerra dei Sei giorni, nel luglio del 1967, con la presa di Gerusalemme, la Città santa, la capitale della Grande Israele. Il punto è che questa fazione oggi è al governo. Non mi riferisco soltanto ai due ministri di estrema destra, Ben-Gvir e Smotrich. Il grande problema ha un altro volto e un altro nome…
Quale, professoressa Foa?
Benjamin Netanyahu. Il primo ministro sostiene con forza questa posizione estremista. Non credo che Netanyahu voglia soltanto sfuggire alla giustizia, ma credo che sia perfettamente convinto di quello che sta facendo, qualunque ne siano i motivi che ne sono alla base.
Israele ha due anime. Quella più “nera” oggi governa.
Un’“anima” che incombe anche su Gerusalemme.
È così. E questo dà la cifra di ciò che oggi muove questa destra. Non è un assillo alla sicurezza, ma una bramosia di possesso assoluto. Su Gerusalemme ci sono accordi, che datano molti anni, tra Israele e la Giordania, che hanno stabilito che sulla Spianata delle Moschee gli arabi e musulmani vanno a pregare e i non musulmani vanno a visitare. Adesso questi accordi sono continuamente e provocatoriamente messi in discussioni anche dalle passeggiate di Ben-Gvir sulla Spianata delle Moschee e dalla sua malsana idea della ricostruzione del Terzo Tempio. Sarebbe una follia totale, che è sempre stata propria di frange estremiste, ma se oggi viene riproposta da chi ha responsabilità di governo, c’è da allarmarsi. Non dimentichiamo che l’operazione di quel 7 ottobre genocidario, come è genocidario l’attacco a Gaza, quell’operazione fu denominata da Hamas “Alluvione Al-Aqsa”. L’azione e i propositi della destra estrema offrono una sponda, anche se senza alcuna giustificazione, a quel riferimento.
Cosa fanno oggi queste due anime?
L’anima democratica ha combattuto contro la riforma giudiziaria di Netanyahu senza porre il problema dell’occupazione, che è il grande problema di Israele e quindi della fondazione dello Stato palestinese. Dall’altro lato, con il potere è cresciuta la forza dell’anima messianica, quelli che vogliono la Grande Israele. Da una parte – quella palestinese – ci sono quelli che vorrebbero la distruzione d’Israele, dall’altra parte ci sono i messianici e il governo che vorrebbero, per l’appunto, realizzare la Grande Israele. Quello che veramente interessa in questo momento a Netanyahu e al governo è la West Bank. Il che non mette certo tra parentesi la guerra di Gaza, contro quell’Hamas che, indirettamente ma consapevolmente, Netanyahu, da primo ministro, ha foraggiato con i miliardi del Qatar. Ma quello a cui si mira principalmente s’invera in ciò che stanno facendo i coloni, e anche l’esercito, nella West Bank. Colonizzare totalmente la Cisgiordania per porre fine a qualunque ipotesi di uno Stato palestinese. È un disastro. Per Israele è un suicidio. Ed è impressionate che una opposizione così forte, spontanea, sostenuta da un sindacato, l’Histadrut, che proclama un riuscito sciopero generale, ecco, è impressionante, e inquietante, che tutto questo non sortisca alcun effetto su un governo che va sparato sulla propria strada, senza avere alcuna visione politica di rapporti con l’altra metà se non di più, del paese.
C’è chi sostiene, dentro e fuori Israele, che l’affermazione di questa destra messianica e ultra-nazionalista, sancisca la fine dell’utopia sionista.
Nemmeno i sionisti religiosi avevano in mente un’ipotesi come quella sostenuta oggi dai messianici. Nei primi tempi dell’opposizione, prima del 7 ottobre, si diceva che i coloni messianici stessero facendo la stessa cosa che gli zeloti avevano fatto nel 70 d.C., con la rivolta contro i Romani, contribuendo così alla distruzione d’Israele. Io credo che questa destra oggi al potere segni la fine di quel sionismo. In ogni caso, il sionismo così come è stato proposto, lo Stato degli ebrei, non possa convivere con i fondamenti della democrazia. In questo hanno ragione i post-sionisti, gli storici e tutti quelli che sostengono che occorre arrivare ad una uguaglianza effettiva di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro religione, e che il suprematismo ebraico non può avere posto in uno Stato democratico. Questo è il grande, e tuttora irrisolto, problema, che è stato ribadito molto fortemente nel 2018 da Netanyahu con la legge su Israele, Stato della nazione ebraica, approvata a maggioranza dalla Knesset. Una legge “etnocentrica”, che, tra l’altro, ha tolto l’arabo come seconda lingua paritaria rispetto all’ebraico.
Il riconoscimento dell’esistenza di queste due anime, e una conseguente scelta di campo, è un tema presente nella diaspora ebraica oppure fa premio difendere, sempre e comunque, Israele in sé.
Lo dico con molto dolore. Indubbiamente c’è questa percezione in una parte della diaspora americana, che si manifesta con documenti, prese di posizione, manifestazioni a New York, in California… C’è una parte importante della diaspora americana che è molto consapevole di quello che sta succedendo. Bisogna però tener conto che quella americana è in prevalenza una diaspora riformatrice o conservatrice, ma non ortodossa. Una ortodossia moderna, non quella degli ultra-ortodossi, che invece è propria della maggior parte della diaspora europea, come quella italiana.
In Italia e in Europa c’è uno schierarsi con Israele che in parte, è bene ricordarlo, dipende dal trauma del 7 ottobre, che per Israele e la diaspora è stato molto grosso, scioccante, comprensibile, riportato spontaneamente, dall’emozione della gente, alla Shoah ben prima che lo facesse, con strumentalità, Netanyahu. C’è questa idea che bisogna sostenere Israele in tutti i modi, perché Israele può crollare. E poi c’è un legame con la destra israeliana. Lo si vede chiaramente in alcune delle maggiori comunità ebraiche italiane. Il grande scrittore israeliano Abraham Bet Yehoshua, in diverse conversazioni con chi scrive, insiste molto sul concetto, culturale prim’ancora che territoriale o politico, di “confine”.
Confine come coscienza del limite rispetto al disegno messianico della Grande Israele.
Yehoshua intanto era un oppositore molto netto della destra in Israele. Lui, come Oz e Grossman. Yehoshua era un laico, un convinto sionista, come pure gli altri scrittori. Ma era anche un intellettuale che riprendeva e declinava un filone che è stato presente in tante parti del mondo sionista, ad esempio prima degli anni 30, prima delle grandi insurrezioni arabe. Un filone che voleva un rapporto di amicizia, di coabitazione, forse il filone di quanti pensavano anche a un solo Stato bi-nazionale. Questo era diventato impossibile già negli anni 30, ancor più nei decenni successivi, ed oggi è impensabile, anche se era la grande utopia di una parte del mondo sionista. In anni recenti, la sinistra in Israele ha dibattuto sull’idea di un solo Stato bi-nazionale o della soluzione a due Stati. In qualche modo, l’idea dei due Stati resta l’unica, sia pur lontanissima e utopica, possibilità di soluzione politica, se si riuscisse a fermare questa follia.
Lo chiedo ad una intellettuale progressista, di sinistra. Esiste ancora un antisemitismo a sinistra?
Purtroppo, sì. Non solo a me è capitato d’imbattere in affermazioni forti, non solo adesso, che suscitavano reazioni altrettanto forti. Ad esempio, ho sentito da una persona di sinistra dirmi, anni fa, che gli ebrei sono tutti ricchi. Mi ha molto colpito perché credevo fosse un’affermazione propria della destra. Nella sua declinazione meno ideologizzata, più legata agli eventi recenti, è una posizione di chi si sente all’opposizione di un mondo che si vede come caratterizzato dall’apartheid, dal colonialismo. Cose che andrebbero viste e analizzate con più attenzione rispetto ad una etichettatura così tranchant. Certamente ci sono degli elementi coloniali nell’esperienza d’Israele, ma ve ne sono anche altri che non lo sono. Certamente c’è il rischio di andare verso l’apartheid, ma c’è anche la possibilità contraria. E comunque è un apartheid diverso da quello del Sudafrica, che vedeva ospedali diversi, autobus diversi, scuole diverse per bianchi e neri. Dico questo non per sminuire il rischio che ci si possa arrivare, per carità. Però, per il momento, grazie all’opposizione democratica, non mi sembra che sia così. Per tornare alle venature di antisionismo a sinistra. C’è quella di una opposizione che si riallaccia a valori post-coloniali e antimperialisti che, magari anche in una dimensione utopica in cui si dichiara contro il male, contro la guerra, elementi che identifica tout court con Israele. Dall’altra, esiste una ignoranza, nel senso di non conoscenza, delle sfumature del sionismo di cui si parlava in precedenza, o anche delle grandi manifestazioni per il cessate-il-fuoco a Gaza. Ignoranza dovuta anche al fatto che fino al 7 ottobre nessuno ne ha parlato, europei o italiani. Non è colpa soltanto di chi non segue. Non tutti leggono Haaretz in inglese tutti i giorni. L’Unità ne ha scritto, ma in genere questa realtà non è stata coperta. È sempre esistita una opposizione di sinistra, da sinistra, a Israele, sotto vari aspetti. Per quanto mi riguarda, ad esempio, sono stata sempre nettamente contraria al boicottaggio contro le università, che da sempre sono la parte migliore, più avanzata, d’Israele, che sono all’opposizione del governo e per questo vessate dalla destra. Altro che boicottarle, dovremmo sostenerle. Su questi temi ho scritto un libro che tra poco uscirà. Ma forse la conoscenza non basta quando si tratta di un tema così violentemente dibattuto da tutte le parti, anche nella diaspora, da chi sostiene Israele senza se e senza ma o, sull’altro fronte, da chi sostiene perfino Hamas ritenendo quello che portano avanti, una guerra di liberazione. Rabbrividisco al solo pensare che il 7 ottobre possa essere ritenuto tale. C’è una sorta di militarizzazione del pensiero, che rende estremamente difficile, se non impossibile, usare toni e proporre argomentazioni che consentano di comprendere la complessità della situazione che si ha davanti e cercare anche di spiegare una situazione che ha molti movimenti, una storia molto mossa e che va vista in questo senso. Anche per aiutare la sinistra israeliana a liberarsi di Netanyahu e della guerra di Gaza, e riportare a casa, in vita, gli ostaggi.