La campagna del tycoon
Donald Trump è un fascista, ecco perché
Definisce “pacifico” l’assalto dei suoi al Campidoglio (6 morti e 170 feriti). Cerca di indebolire la democrazia, vuol dare la caccia “a quegli animali dei migranti”. Giroux e Di Maggio lo inchiodano: “È un nuovo Mussolini”
Editoriali - di Michele Prospero
Anche il confronto televisivo tra i due candidati conferma che in America è in questione la qualità della democrazia. Evidenti sono i rischi involutivi connessi alla normalizzazione di un presidente sleale, che rivendica le imprese della folla ribelle assiepata nel Campidoglio. Nel corso del duello in video, Trump ha elogiato i disordini del 6 gennaio, ricordati come “un assalto pacifico e patriottico” sorto in reazione a una eclatante frode elettorale – in realtà, per impedire il trasferimento dei poteri, si registrarono 6 morti, 170 furono i poliziotti feriti e più di 1000 le incriminazioni per i facinorosi.
Il costituzionalismo è stato oltraggiato con il consolidamento nel paese di una destra inedita che disprezza le regole del gioco. In un libro uscito nel 2024 (Fascism on Trial, Bloomsbury Academic), Henry A. Giroux e Anthony R. DiMaggio forniscono una diagnosi radicale sul ciclo politico autoritario che ha travolto le istituzioni di Washington. Il primo è uno studioso di orientamento “critico”, vicino alle posizioni di Foucault e Agamben, il secondo un politologo che adopera suggestioni gramsciane in un tentativo di analisi di classe del sistema politico e mediatico statunitense. Partendo da approcci tanto diversi, gli autori del testo si chiedono se non sia opportuno recuperare la parola proibita “fascismo” per qualificare le gesta irregolari di un ex comandante in capo bugiardo che sogna lo spettacolare rientro.
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Il tycoon di New York non solo civetta con la violenza, minaccia i giudici federali, denuncia brogli spudoratamente inventati, agita il mito della militarizzazione delle frontiere, accarezza il suprematismo bianco quale leva identitaria per il ripristino della grandezza perduta; ma addirittura, a mo’ di manifesto dell’auspicata slavina in direzione illiberale, asserisce che “quando qualcuno è il presidente degli Stati Uniti, la sua autorità è totale, e così deve essere”. Con una predilezione per le frasi impressionistiche, Trump non si limita a esprimere una canonica polarizzazione verbale (fantasie animalesche sugli immigrati che “mangiano cani e gatti”, anti-intellettualismo, paranoie attorno a complotti incombenti). La fabbrica di un senso comune eccitato dalle trasmissioni della Fox News e le devianze semantiche introdotte da ulteriori agenti della post-verità servono per organizzare un supporto diffuso al piano di svuotamento progressivo delle procedure liberali.
A detta di Giroux e DiMaggio, “il trumpismo è un movimento plutocratico-neoliberale” che, al credo mercatista (domanda di meno tasse, rifiuto della sanità pubblica, dell’assistenza sociale, dei sussidi, della conversione ecologica, del salario minimo e della regolamentazione delle armi), aggiunge un richiamo al codice reazionario (omofobia, appoggio del tradizionalismo religioso, opposizione all’aborto, ai diritti civili e al multiculturalismo). Il nucleo della loro argomentazione è che, dinanzi alle venature tipiche dell’estremismo di destra – le metafore di guerra civile, il linguaggio dell’eliminazione del nemico ne sono una spia assai chiara –, è arduo, come fanno invece i giornali liberal che pure lamentano una deriva autocratica imminente, escludere per finalità esplicative l’utilizzo del termine scabroso “fascismo”.
Una tendenza maggioritaria ritiene che il regime presidenziale sia immunizzato dagli spettri del secolo breve e perciò, a fronte del sostegno popolare alle manovre trumpiane di riconquista dello scettro, preferisce descrivere in maniera generica e riduzionistica “The Donald” come l’artefice di “una politica populista che si avvale del populismo quale ideologia”. La differente convinzione di Giroux e DiMaggio è che a monte agisca un intenzionale investimento contro-culturale volto a determinare l’essiccamento della base valoriale della democrazia, costretta a oscillare pericolosamente tra autoritarismo di recentissimo conio ed echi novecenteschi. La conclusione è netta: “Trump e i suoi attuali sodali politici, tra cui Elon Musk, si affidano ai media come a delle «macchine di disimmaginazione». I motori della disinformazione vengono accesi perché capiscono che soltanto un’educazione che promuove l’esame critico, il pensiero e il giudizio consapevole garantisce una cittadinanza attiva che rinvigorisce la democrazia. Una formazione critica è avversa ai demagoghi, i quali intendono pietrificare la coscienza attraverso un’ondata di shock, sensazioni e semplicismi che non richiedono ragionamento e cancellano la memoria, la riflessione e il dialogo critico. Per Trump proprio la diseducazione è la chiave per essere eletti”.
Davanti allo sfidante dai capelli arancioni, che accusa i Democratici di “uccidere i bambini” e taccia Kamala Harris di essere “una marxista come suo padre”, non devono esserci esitazioni di sorta. In un’opinione pubblica alquanto ampia, che scavalca il vertice del M5s, si insinua comunque il dubbio che, ingoiando il rospo di un bis del golpista mancato, si possa favorire una rapida cessazione degli spari ai confini del Vecchio Continente. Una simile lettura, in un pianeta certamente dominato da attori che flirtano con l’abisso, non ha però alcun fondamento alla luce della sostanziale affinità esistente negli affari esteri tra la retorica nazionalista dell’“America First”, ostile al globalismo “no border” e “open door”, e il motto progressista “l’America è tornata” sventolato quale argine all’ascesa di Pechino.
Un saggio del 2023 di Bastiaan van Apeldoorn, Jaša Veselinovič, Naná de Graaff (Trump and the Remaking of American Grand Strategy, Palgrave Macmillan) ha colto nel segno: “Sia che Trump finisca di nuovo alla Casa Bianca, sia che vada in prigione o semplicemente svanisca, i suoi quattro anni nello Studio Ovale hanno in effetti rimodellato durevolmente la politica estera degli Usa. Trump ha aperto lo spazio politico a Biden che persegue l’idea di una egemonia americana come blocco geopolitico e geoeconomico di alleati concordi o democratici”. Tramite una policy denominata “agenda di protezione”, confezionata per instradare il malcontento domestico in funzione anti-cinese, il presidente democratico ha conservato, e in taluni casi ampliato, i dazi del predecessore repubblicano allo scopo di contenere, secondo una logica di interferenza politica, la concorrenza orientale nel cruciale settore delle tecnologie.
La costruzione di un assetto multipolare, con una governance condivisa e non in scontro permanente, è un obiettivo che, a causa delle affiorate convergenze circa il ruolo internazionale da recitare, rimane estraneo ad entrambi i pretendenti all’alta carica. Che Harris – “i nostri alleati sono grati che Trump non sia più presidente, altrimenti Putin siederebbe a Kiev con gli occhi puntati sul resto dell’Europa”, ha scandito – si muova in continuità con lo spirito guerriero di Biden, non significa tuttavia che il campione del “Maga” assicuri sul serio una qualche soluzione negoziata ai conflitti. Piuttosto che alla vendetta del magnate atteso invano come angelo di pace, la flebile fiammella della distensione in un mondo ormai policentrico è aggrappata alla (difficile) rinascita di una sensibilità pacifista, o almeno realisticamente incline alla mediazione, nei leader europei, oppure, magari, alla lenta forza di persuasione di un sondaggio che stima al 70% la quota degli americani stanchi per la guerra d’attrito che inutilmente si protrae distruggendo l’Ucraina.