Fanno finta di non capire. Ed è, credetemi, l’ipotesi migliore. Perché peggio sarebbe se avessero capito. Perché, per quanto ci si sforzi di farlo credere grazie a media compiacenti, la questione centrale del processo Open Arms non è se ma come ed entro quali limiti un Ministro debba difendere i confini nazionali. Che uno Stato debba presidiare le proprie frontiere è scontato perché “compito ineludibile”, tanto più quando, come per l’Italia, coincidono con quelle esterne dell’Unione europea. Come parimenti scontato è che “il potere di disciplinare l’immigrazione rappresenti un profilo essenziale della sovranità dello Stato, in quanto espressione del controllo del territorio (…) in funzione d’un ordinato flusso migratorio e di una adeguata accoglienza” (Corte cost., 353/1997).
Il punto è che la difesa dei confini si fa nella terraferma non in mare, cioè dopo aver salvato e fatto sbarcare i naufraghi. Un particolare che evidentemente sfugge a chi, volutamente dimenticando la carta geografica, accomuna all’Italia la decisione della Germania di chiudere i confini. Perché i naufraghi, prima di tutto, vanno salvati. Un obbligo non solo morale, come la gente del mare sa bene, ma anche giuridico, come imposto dal principio di “non respingimento” sancito dalle consuetudini e dai trattati internazionali (Convenzioni Solas, Sar, Unclos, Salvage), pena il reato di omissione di soccorso (artt. 489, 490 e 1158 cod. navigazione). Si obietterà: ma i naufraghi erano già stati salvati dalla Open Arms per cui non erano più in pericolo! Obiezione respinta. L’obbligo di prestare soccorso e assistenza non si esaurisce nel salvataggio in mare. Anche se dispone di strutture e attrezzature adeguate (e la Open Arms non le aveva), solo temporaneamente la nave può costituire un luogo sicuro perché per sua natura in balìa degli eventi metereologici avversi e non in grado di garantire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse, tra cui quello di presentare domanda di protezione internazionale.
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Luogo sicuro è, piuttosto “dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei naufraghi o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, riparo e cure mediche) possono essere soddisfatte e possono essere presi accordi per il trasporto dei sopravvissuti alla loro destinazione prossima o finale” (§ 6.12 Linee guida allegate alla Convenzione Sar). Per questo i naufraghi devono essere sbarcati e condotti in tale luogo sicuro (il c.d. Pos, point of safe) nel più breve tempo ragionevolmente possibile. Ed è proprio per questo motivo che l’ordine dell’allora ministro dell’Interno di vietare e ritardare lo sbarco dei naufraghi è stato dichiarato illegittimo dalla Cassazione, che ha confermato l’assoluzione di Carola Rackete dall’accusa di avervi disubbidito (sentenza n. 6626/2020). La crudele decisione di tenere in mare per 19 giorni i 147 naufraghi salvati dalla Open Arms, tra cui donne e bambini, usandoli come arma di ricatto per costringere gli altri Stati dell’Ue (compresi quelli “fratelli” sovranisti) ad accettare la loro preventiva redistribuzione, non c’entra nulla con la difesa dei confini, visto che – come già accaduto e tuttora accade – essa non impedisce che i naufraghi possano essere sbarcati, soccorsi e trattenuti negli appositi centri di accoglienza. Essa piuttosto esprime quella concezione statolatra, tipica degli Stati autoritari, per cui lo Stato viene prima delle persone, i cui diritti inviolabili possono essere sacrificati sull’altare di interessi supremi. Una concezione in radicale contrasto con il principio personalista sancito dall’art. 2 della nostra Costituzione per cui è lo Stato in funzione dei diritti della persona, e non viceversa.
Del resto, la decisione di negare lo sbarco ai naufraghi, lasciandoli in condizioni inumane e degradanti, s’inserisce in una triste sequenza di tentativi per respingere i migranti salvati dalle navi delle Ong: dapprima riportandoli in quel lager a cielo aperto che è la Libia (condotta condannata dalla Corte di Strasburgo); poi negando loro lo sbarco nei porti italiani (dirottandoli forzosamente a Malta, in Tunisia e ora in Albania); infine tenendoli giustappunto in mare, facendo al limite sbarcare solo donne e bambini. Sequenza il cui ultimo atto è l’assegnazione alle navi delle Ong di un punto di sbarco molto distante dal luogo di salvataggio, costringendo biecamente naufraghi già provati, ad ulteriori giorni di navigazione e inibendo a tali navi, se non espressamente autorizzate, ulteriori operazioni di salvataggio, pena il loro sequestro; sanzione quest’ultima non a caso recentemente dichiarata illegittima dal Tribunale civile di Salerno che pochi giorni fa ha ordinato il dissequestro della nave Geo Barents.
C’è infine in questa amara vicenda un particolare che vale la pena di ricordare a chi la butta in politica. L’ex ministro dell’Interno è sotto processo perché il 30 luglio 2020 il Senato ha concesso l’autorizzazione a procedere, invece negata per gli stessi fatti il 20 marzo 2019 nel caso Diciotti. Questo semplicemente perché, con il passaggio dal Conte I al Conte II, il M5s, al contrario di quanto in precedenza votato, ha ritenuto che il ministro non aveva più “agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo” (art. 9.3 l. cost. 1/1989). Una valutazione opposta dovuta solo a motivazioni politiche.
Mi chiedo: ma che credibilità possono avere decisioni in ordine alla valutazione d’identiche condotte dipendenti semplicemente dal mutamento delle maggioranze di governo? Ancor di più: può il ministro, nell’esercizio delle sue funzioni, per mere ragioni di propaganda politica, commettere reati che ledano diritti fondamentali incomprimibili come la vita, la salute e la libertà personale? Questo significa che, fortunatamente per ipotesi, in difesa dei confini nazionali si possono financo impunemente commettere e giustificare omicidi di Stato? Ecco perché l’invocazione della difesa dei confini nazionali è solo una puerile giustificazione politica di fronte ad ipotesi di reato ben più gravi e a questioni giuridiche ben più complesse su cui i giudici di Palermo dovranno pronunciarsi, senza timori o condizionamenti di sorta.