Medio Oriente in fiamme
“Netanyahu ha superato ogni limite, saltati tutti i paletti per evitare l’allargamento della guerra”, parla Guolo
«In Libano stanno saltando tutti i paletti che sia i contendenti che la diplomazia internazionale avevano posto per evitare che il conflitto si allargasse. Se l’obiettivo diventa distruggere Hezbollah, l’Iran non starà a guardare»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Il Medio Oriente in fiamme, dal Libano a Gaza. L’Unità ne discute con il professore Renzo Guolo, tra i più autorevoli studiosi dell’Islam radicale e della realtà mediorientale, docente di sociologia delle culture e sociologia della politica all’Università di Padova.
“Israele ha superato tutte le linee rosse. È una dichiarazione di guerra”. Così il leader di Hezbollah nel suo discorso televisivo di giovedì, dopo la cyberguerra scatenata da Israele. Professor Guolo, solo parole o siamo davvero alla vigilia di una guerra totale?
Questo è il vero problema. Fino ad oggi ciò che si è manifestata, a bassa intensità, è la guerra dei proxy, di cui Hezbollah, assieme agli Houthi yemeniti, è il principale protagonista, la longa manus dell’Iran che non può combattere apertamente per diversi motivi compreso la tenuta del regime. Questa strategia può durare fino al momento in cui lo scontro resta “congelato”, la guerra viene messa in-forma. Nel momento in cui questo confine salta…
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Perché potrebbe saltare?
Israele ha ormai altri obiettivi e la sua maggioranza politica, quella vera, costituita dal blocco nazionalista fedele a Netanyahu più che a Gallant, e dalla destra estrema messianica, si propongono di estendere di fatto i confini d’Israele, con l’annessione della Cisgiordania, la neutralizzazione di Gaza attraverso fasce di sicurezza o parziali inclusioni di territori, un’altra fascia di sicurezza a nord, beh, a quel punto tenere questa guerra “regolata”, come stanno cercando di fare anche gli Stati Uniti, diventa impossibile. A quel punto sarebbe in gioco l’esistenza stessa di Hezbollah, e dell’Iran stesso se venisse coinvolto in un conflitto aperto. Stanno via via saltando tutti quei paletti che sia i contendenti che la diplomazia internazionale stavano mettendo proprio per evitare che il conflitto si allargasse. Un conflitto in Libano che si ponesse l’obiettivo, nei fatti anche se non dichiarato, della distruzione totale di Hezbollah, non potrebbe essere tollerato dall’Iran, perché a quel punto verrebbe meno una sua proiezione geopolitica. L’Iran conta se ha alleati nell’area che riescono in qualche modo ad essere una minaccia per Israele o appoggiare la politica di Teheran. Nel momento in cui quei proxy non li ha più, Teheran è totalmente isolata, i presupposti del suo stesso nazionalismo farsi, simil persiano, vengono meno.
Il Libano. È una forzatura definirlo uno Stato fallito?
No, non è una forzatura. Lo vediamo dal fatto che mancano ancora le istituzioni, secondo i meccanismi costituzionali che sono assurdamente legati ad una tripartizione confessionale che in realtà non esiste più nei rapporti veri.
Nel senso?
Quella tripartizione era inizialmente costruita attorno al peso delle diverse comunità. Oggi queste comunità hanno rovesciato completamente l’equilibrio demografico: gli sciiti sono la maggioranza in Libano, demografi e intelligence lo dicono, anche se non si può fare un censimento ufficiale, perché farebbe saltare il paese. E così abbiamo ancora la tripartizione confessionale come se fossimo fermi al 1932. È ovvio ed evidente che ciò non può più funzionare. E poi c’è il problema dell’economia, testimoniato dal recente scandalo che ha coinvolto il governatore della Banca del Libano, una figura centrale nel far sopravvivere il paese nonostante il conflitto. Quella che sta franando è la struttura consociativa che ha retto il Libano nonostante le guerre civili, nonostante Hezbollah, nonostante gli scontri confessionali. Oggi tutti questi aspetti diventano molto più problematici da gestire che in passato, anche se poi, in assenza di movimenti trans comunitari, restano difficili da spezzare. Tutti pensano: se io combatto contro la mia rappresentanza comunitaria, l’avversario ne approfitta. È come il classico gatto che si morde la coda. Certo è che tra la crisi economica, le conseguenze dell’esplosione del porto di Beirut, la mancanza di una completezza istituzionale, l’assenza di fatto di un governo, un provvisorio che dura ma che resta totalmente debole. Questo combinato disposto fa sì che il Libano sia un paese sull’orlo del baratro. Ed è anche questa la remora di Hezbollah a non andare direttamente ad un conflitto totale. Se il conflitto si allargasse, e non fosse solo cacciare Hezbollah oltre il fiume Litani ma si perpetuasse come una sorta di replica dell’ “Operazione Pace in Galilea” di Ariel Sharon del 1982, con i carri armati israeliani che arrivano fino a Beirut, beh, allora Hezbollah coinvolgerebbe il paese in una guerra totale. E a quel punto sarebbe difficile pensare che da uno scontro di questo genere possa rimanere circoscritto ad una dimensione locale.
Dal Libano a Israele. La guerra è l’assicurazione sulla vita politica per Benjamin Netanyahu?
Assolutamente sì. Era chiaro fin dall’inizio che Netanyahu avrebbe dovuto dimettersi il giorno dopo il 7 ottobre. Non lo ha fatto e ha cercato di usare la guerra per realizzare la sua sopravvivenza personale, emergere come quello che avrebbe rovesciato quel momento drammatico per Israele distruggendo Hamas. Più la situazione permane in un stato di emergenza, e la guerra è lo stato di emergenza più eclatante, più si giustifica il fatto che non si cambia il comandante supremo mentre ci sono questioni così importanti, vitali in corso. Finché la guerra prosegue, Netanyahu ha buone ragioni, efficaci pretesti, per rimanere al suo posto. D’altro canto, la struttura costituzionale non lo obbliga a dimettersi, ci sarebbe solo la sensibilità politica, che certo non è tra i suoi tratti distintivi. Grazie alla destra messianica, Netanyahu ha una maggioranza alla Knesset (il parlamento israeliano, ndr). Il sistema elettorale israeliano è proporzionale puro e questo fa sì che quella maggioranza, pur risicata, ci sia e quindi nessuno può abbatterlo se non c’è una rivolta nel Likud, il suo partito. Cosa al momento alquanto improbabile, visto che vorrebbe persino cacciare Gallant, anch’egli Likud, dal governo. La situazione è complicatissima. Per Netanyahu la guerra ha un duplice scopo: garanzia della propria sopravvivenza interna e realizzazione di una politica a cui a sempre creduto.
Vale a dire, professor Guolo?
Il Grande Israele, in versione non nazional-religiosa ma nazionalista.
Siamo prossimi ad un anno da quel tragico 7 ottobre 2023, l’ “11 settembre d’Israele”. A un anno di distanza, Hamas è più forte o meno?
È più debole militarmente, questo è indubbio. Ma non è certo sconfitta politicamente. Il paradosso è che la guerra può fare uscire Hamas dalla prigione a cielo aperto di Gaza. Se la popolazione gazawi potrebbe essere segnata rispetto al disastro in cui Hamas l’ha cacciata, anche se diventa dubbio nel momento in cui Israele non riesce a volgere a suo favore isolandola da Hamas con la tattica di guerra. Quel che è certo è che Hamas oggi è molto più forte in Cisgiordania, dove un tempo non lo era. Ed è questo il vero nodo.
Perché lo è?
Perché la Cisgiordania ha anche un retroterra, non è una prigione a cielo aperto isolata dal mondo come è la Striscia di Gaza. È prossima alla Giordania, dove c’è la monarchia hashemita ma ci vivono milioni di cittadini di origine palestinese. In Cisgiordania Hamas è sempre più forte anche per l’assenza di una leadership dell’Anp, ridotta ad un mero notabilato sorretto dall’esterno.
L’unico, lo dicono tutti, che potenzialmente potrebbe invertire questa situazione sarebbe Marwan Barghouti, che non a caso è in cima alla lista dei potenziali prigionieri palestinesi da liberare in un eventuale scambio con gli ostaggi israeliani in cattività a Gaza. Bisognerebbe capire, vedere, se gli uni, gli israeliani, e gli altri, Hamas e la stessa Autorità nazionale palestinese, vogliono che sia libero, perché è chiaro che lui contenderebbe la leadership ad Hamas e al tempo stesso sarebbe un reale problema per Israele, perché in tal modo potrebbe diventare un interlocutore politicamente più complicato da emarginare rispetto ad Hamas.
In questo scenario che ruolo sta giocando e potrebbe giocare in futuro l’Arabia Saudita?
L’Arabia Saudita aveva già deciso di firmare gli “Accordi di Abramo”. Il 7 ottobre è anche contro il Regno Sa’ud e la saldatura della politica che avrebbe definitivamente sepolto la questione palestinese. Alla monarchia saudita, soprattutto il principe regnante, Mohammad bin Salman, poco importa della causa palestinese, ma ancora non è in grado di prescinderne come vorrebbe. MbS ha come suo obiettivo primario che è quello di trasformare il paese, modernizzandolo con avveniristiche costruzioni, la riconversione dell’economia non più dipendente solo dal petrolio. Per fare questa operazione ha bisogno di tranquillità interna, senza sollevare le resistenze religiose che ci sono, anche se sono ben compresse. Il principe regnante firmerebbe gli Accordi di Abramo il giorno dopo che la situazione fosse tranquilla, ma se la situazione resta quella di adesso, o addirittura peggiora, sarebbe molto complicato fare questa scelta, perché i regnanti Sa’ud sono comunque i custodi dei Luoghi santi dell’Islam. Per Mohammad bin Salman essere custode dei Luoghi santi, Mecca e Medina, e fare un accordo con un governo quale quello israeliano in cui c’è dentro una destra messianica che pensa si possa andare a pregare sulla Spianata delle Moschee – terzo Luogo santo per l’Islam – e in realtà si vorrebbe costruire da quelle parti il Terzo tempio, ciò sarebbe ingestibile persino da un governante spregiudicato quale ha dimostrato di essere MbS.
n questo scenario esplosivo, come naufraga, sul piano culturale oltre che geopolitico, il concetto di “Occidente”?
Naufraga clamorosamente. Perché è chiaro che la politica di potenza emerge come l’elemento determinante. Quello che l’Occidente sembra non capire è che nel mondo arabo-islamico, questa guerra conferma, non soltanto nei simpatizzanti di Hamas, l’idea che l’Occidente si fondi sul doppio standard, per cui i mori pesano di più se sono occidentali mentre le altre vittime non contano nulla, o che si possano tollerare certe violazioni del diritto internazionale anziché altre, questo elemento finisce per approfondire sempre di più le divaricazioni tra mondo islamico e Occidente. Soprattutto nelle nuove generazioni. Questo è un rischio enorme. Noi stiamo sottovalutando la dimensione simbolica che questo conflitto ha, che fa crescere potenzialmente le minacce radicali. Non è più solo la guerra d’Israele. Nel momento in cui mette in moto questo tipo di atteggiamenti diventa un problema che coinvolge tutto l’Occidente. Purtroppo, in questa situazione, nonostante gli sforzi di Biden, abbiamo visto una latitanza totale sia degli Stati Uniti che dell’Europa, incapaci di fare una proposta politica spendibile o ricondurre minimamente ad un obiettivo condiviso un alleato riottoso come si sta dimostrando Israele sotto la guida di Netanyahu. Questo conflitto avrà conseguenze molto importanti anche sugli immaginari che si creano, reciproci, all’interno delle culture, e rischia di alimentare il “conflitto di civiltà” che giustamente si vorrebbe evitare.