Europarlamentare, eletta come indipendente nelle liste del Pd, con una solida vocazione, e pratica, pacifista e disarmista. È stata presidente di Emergency dal 2009 al 2017, dal 2021 è responsabile della comunicazione per la Onlus italiana ResQ people saving people. “Per le molteplici attività svolte, per la sua opera sociale all’interno di un’associazione, così come per il lavoro di informazione, controinformazione e testimonianza riguardo ai teatri di guerra e alle possibili soluzioni da adottare. Tutto ciò ha permesso e permette a molti di conoscere realtà complesse, di aprire orizzonti diversi e di creare spazi di impegno decisivi per il progresso della società”. Questa è la motivazione con cui nel 2018 le è stato assegnato il Premio nazionale “Cultura della Pace”. Un impegno che oggi continua a Bruxelles e Strasburgo. La parola a Cecilia Strada.
Senza girarci troppo intorno. Come ci si sente ad essere annoverata tra i “filoputiniani italiani” per il suo voto su una recente risoluzione del Parlamento europeo sulle armi e il loro uso all’Ucraina?
I pacifisti hanno dovuto farci il callo negli ultimi anni ad essere additati come quello che non sono. Si dimentica, peraltro, che erano anni che il movimento pacifista e disarmista faceva presente tutta una serie di cose, compreso che Putin stava riempiendo i suoi arsenali e che non era poi una grande idea vendere armi ai tiranni, permettendo loro di riempire i loro arsenali.
Quello a cui fa riferimento, è stato un voto difficile, complesso per tutti. Un voto ben più articolato di quello che poi è uscito, molto sintetizzato, per non dire altro.
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Diciamolo questo “altro”.
Beh, in Italia è uscito che si stava discutendo sul togliere le restrizioni per gli attacchi ucraini sul suolo russo. In realtà era una risoluzione articolata in 24 punti, c’erano 27 emendamenti e in totale abbiamo fatto 48 voti su questa risoluzione. Io ho partecipato ad ogni votazione per provare a modificare il testo della risoluzione, togliendo le cose che per quanto mi riguarda sono un allarmante rischio di escalation. L’attacco sul suolo russo era un punto molto dirimente e la maggior parte della delegazione del Partito democratico ha votato per toglierlo dal testo finale. C’erano anche altre cose che a me non convincevano di quella risoluzione.
Quali?
Ad esempio, il punto in cui si plaude alle iniziative crowdfunding dei cittadini per comprare armi all’Ucraina e s’invita a sviluppare analoghe iniziative negli Stati membri per sviluppare la solidarietà verso l’Ucraina. In armi. Questa per me è la normalizzazione dello stato di guerra che mi preoccupa moltissimo, perché la guerra dovrebbe essere lo stato d’eccezione e non la regola. Iniziative come quella che accennavo contribuiscono ad alimentare l’idea della normalizzazione della guerra. Io sono cresciuta in un mondo in cui il crowdfunding si fa per mandare aiuti umanitari in Ucraina, e non per comprare le armi. Dopo queste 48 votazioni per parti separate, e anche sugli emendamenti, ho votato anche per inserire una forte iniziativa diplomatica di cui abbiamo bisogno. E non credo che si possa ambire ad essere negoziatori e contemporaneamente autorizzare attacchi sul suolo russo. Dopodiché quella risoluzione contiene cose su cui sono d’accordo: la condanna netta di Putin, a maggior ragione necessaria nel momento in cui il semestre di presidenza ungherese dell’Unione europea ha fatto sì che Orban, prima ancora che ci insediassimo a Strasburgo, era andato, compiacente, da Putin. Non mi sfugge il punto politico di dover dire da che parte sta l’Europa. L’Europa sta con l’aggredito e non con l’aggressore. Non mi sentivo di votare contro e così alla fine ho deciso di partecipare a tutte le votazioni, cercando di modificare il testo come potevo. Non ce l’ho fatta, e sulla risoluzione finale mi sono astenuta. Scontentando un po’ tutti: quelli del “dovevi votare contro”, come quelli che “dovevi votare pro se non sei putiniana”. Sono qui, prendo le cose con responsabilità e ritengo in tutta coscienza che non avevo alternative a quello che ho fatto.
Una domanda volutamente provocatoria. Ma se l’Occidente e l’Europa devono difendere l’aggredito dall’aggressore, anche e soprattutto con le armi, ma allora perché non si arma uno Stato sovrano, il Libano, aggredito da Israele?
Provocazione o no, è lo stesso tema che ho portato io nelle discussioni che abbiamo avuto all’interno. L’ho messa proprio in questi termini. Siamo giustamente dalla parte dell’Ucraina che deve esercitare il suo diritto all’autodifesa, dopodiché c’è un pronunciamento della Corte internazionale del 25 luglio scorso che afferma che gli insediamenti dei coloni nei Territori palestinesi occupati sono in violazione delle Convenzioni internazionali sull’apartheid e la segregazione razziale, quindi vanno sgomberati. Anche lì c’è il tema di difendere la propria terra. E se domani la popolazione palestinese ci chiede delle armi per fare questo, noi cosa facciamo? Non le possiamo dare, è la risposta. E se ci dicono “vogliamo delle armi per attaccare sul suolo israeliano, perché fa parte del nostro diritto all’autodifesa”, noi cosa diciamo? Assolutamente no. Non si può negare che il mondo ci stia guardando, qualcuno lo sussurra, qualcuno lo sta dicendo ad alta voce, qualcuno sta cominciando a gridarlo: “Doppio standard!”. Qualche aggredito è più aggredito di altri. A Gaza e in Cisgiordania nell’ultimo anno sono stati compiuti dei crimini di guerra, delle violazioni palesi e reiterate del diritto internazionale e umanitario. Quello che dovremmo fare è condannarle da qualunque parte provengano. Esattamente come condanniamo i crimini commessi da Putin, dobbiamo condannare i massacri di civili commessi dal governo Netanyahu. Ora questa situazione sta coinvolgendo anche il Libano, con centinaia di morti, tra cui due operatori umanitari dell’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), e decine di migliaia di sfollati. Non condannare con la necessaria nettezza il governo Netanyahu sta incrinando fortemente la credibilità dell’Europa, oltre che essere devastante. A Gaza si contano più di 40mila morti, in maggioranza donne e bambini.
Perché quando il mondo solidale usa per definire ciò che sta avvenendo a Gaza, un genocidio, ecco che scatta subito l’accusa di “antisemitismo”, il marchio dell’infamia?
Lo fanno per inquinare il dibattito. Per confondere le acque e dover parlare di cose vere. Tra l’altro, c’è una parte considerevole della popolazione israeliana che manifesta, che si oppone a quello che sta facendo il governo Netanyahu. Vogliamo dire che sono antisemiti anche loro? Chi è per il diritto internazionale, non ha dubbi da che parte stare. Si deve condannare chi sta violando il diritto internazionale. Allo stesso modo in cui abbiamo unanimemente condannato gli attacchi di Hamas del 7 ottobre e l’orrendo massacro di civili, dobbiamo procedere per coerenza rispetto alla mattanza senza fine dei gazawi. Quando parli di Russa e Ucraina ai pacifisti danno del filoputiniani, in questo caso ci danno degli antisemiti, cosa che rigetto con tutta la forza di cui sono capace. Dirò di più. La scorsa settimana abbiamo avuto un dibattito in aula a Strasburgo sulla situazione a Gaza. A me non era stato dato il tempo di parola, ma negli ultimi cinque minuti dei dibattiti anche chi non ha ricevuto il tempo di parola poteva iscriversi a parlare. Visto che la metà dell’aula aveva fatto discorsi come “bisogna proteggere Israele”, “la priorità è difendere Israele”, altri avevano, invece, sostenuto la necessità di fermare questo massacro, io ho preso la parola, un minuto.
Per dire cosa?
Per dire che sì, certamente, bisogna proteggere la popolazione israeliana, ma che l’unico modo per proteggerla e per proteggere anche la democrazia in Israele, è fermare il governo Netanyahu, che sta facendo un danno enorme alla sua stessa popolazione, sta mettendo il suo paese al di fuori delle regole del gioco civile che gli Stati democratici si danno, sta esponendo la propria popolazione ad altri attacchi, ad una catena d’odio che andrà avanti per anni, sta facendo un danno gravissimo al sistema democratico. Se vogliamo davvero proteggere la popolazione israeliana occorre fermare il governo Netanyahu.
Se si guarda alla sponda Sud del Mediterraneo, definire tragica, nel suo complesso, la situazione è un eufemismo. Ma l’Europa sembra avere come unica mission quella di cercare su quella sponda “gendarmi” del mare che facciano il lavoro sporco al posto nostro.
Questo è un altro grande tema, l’esternalizzazione dei nostri confini. E temo che sarà ancora peggio nei prossimi anni, perché questo Parlamento europeo, le maggioranze che in esso ci sono, vanno in quella sciagurata direzione. L’esternalizzazione viene sempre legata dalla destra e dall’estrema destra alla questione della sicurezza europea, al “dobbiamo proteggerci da attacchi come quello di Solingen di agosto”. Dobbiamo combattere il terrorismo, le minacce interne, contrastando il fenomeno migratorio. Una parte di questo Parlamento fa l’equazione: migranti uguale terroristi, e quindi ancora di più mano libera nella repressione. C’è chi ha proposto una linea di budget per costruire muri. Saranno 5 anni molto complessi, nei quali avremo un gran bisogno di aiuto, di lavorare con la società civile. Abbiamo bisogno anche di cercare nuove alleanze rispetto al tema del governo del fenomeno migratorio. Abbiamo parte del Parlamento europeo, come di quello italiano, che dicono che bisogna tirare su muri, che ci stanno invadendo e che bisogna difendersi, e poi c’è il governatore della Banca d’Italia che dice “signori senza lavoratrici e lavoratori stranieri non andremo da nessuna parte”. Sappiamo benissimo che questo paese è destinato a spegnersi, letteralmente, tra qui a vent’anni. Le simulazioni dicono che all’appuntamento con la storia, nel 2045, arriveremo con un rapporto occupati-non occupati di uno a uno. L’Italia è un paese che si spegne. Per evitarlo, abbiamo un bisogno vitale di lavoratori stranieri. Giorni fa come parlamentari neoeletti abbiamo avuto un incontro con l’Assolombarda che rappresenta gli industriali della Lombardia. Ci hanno detto chiaramente di avere bisogno di capitale umano. Io ho detto loro che purtroppo parte di quel capitale umano che gli serve in parte sta sul fondo del mare e in parte si nasconde nei boschi sulla rotta balcanica, sperando di arrivare da noi. Bisogna mettersi in testa che è fondamentale governare il processo migratorio, perchè non si può fermare. Invece qualcuno è convinto che basti tirar su dei muri per fermare la terra e invertire il corso della storia. Questa non è solo una illusione. È una tragedia.
Qual è il filo rosso che collega la sua lunga esperienza umanitaria con il nuovo impegno europeo?
Il filo rosso sono le commissioni di cui faccio parte: la Libe la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni; la Femm, la Commissione per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere; l’Empl, Commissione per l’occupazione e gli affari sociali; e la Dede, la Commissione per lo sviluppo. Commissioni dove quando incontriamo esponenti della società civile, sono dall’altra parte del tavolo, ma io vedo me, la persona che ero fino a sei mesi fa. Mi sono candidata per questo, per portare avanti quelle istanze. A tutte le organizzazioni che incontro dico: “usatemi e continuate a puntare il dito contro di noi, contro la politica”: perché abbiamo veramente bisogno di dita puntate contro e che ci venga chiesto: “tu politica cosa stai facendo?”. Io vengo dal mondo umanitario, la storia della mia vita è la storia di raccontare quello che abbiamo fatto e poi la richiesta alla politica di fare la propria parte. Se lo facesse, non ci sarebbero così tante persone disperate a chiedere aiuto alle organizzazioni umanitarie. Abbiamo bisogno di essere in costante contatto con la realtà, che la società civile ci costringa a darci da fare per il nostro lavoro, che è risolvere i problemi della gente prima che finiscano nelle condizioni disperate che ho visto fin qui per gran parte della mia vita.