Il processo Eni-Nigeria
Chi sono Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, i pm condannati per aver nascosto le prove a favore della difesa
Il tribunale di Brescia ha riconosciuto i due magistrati milanesi colpevoli di rifiuto d’atti d’ufficio. Concesse attenuanti generiche, sospensione della pena e non menzione. Quindi resteranno in servizio
Giustizia - di Frank Cimini
Per non aver depositato atti favorevoli alla difesa nel processo “Eni-Nigeria” dove poi gli imputati furono tutti assolti dall’accusa di corruzione internazionale, i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro sono stati condannati a otto mesi di reclusione dai giudici del Tribunale di Brescia. I due magistrati, Fabio De Pasquale, tuttora in servizio alla procura di Milano, e Sergio Spadaro, da tempo passato alla procura europea, sono stati riconosciuti colpevoli del reato di rifiuto di atti d’ufficio.
Il Tribunale di Brescia ha concesso agli imputati le attenuanti generiche e anche la sospensione condizionale della pena, oltre alla non menzione che sarebbe dovuta venire negata secondo i pm.
La sentenza emessa ieri mattina mette, almeno per il momento, un punto fermo su una vicenda molto intricata che aveva portato a una spaccatura interna alla procura di Milano, soprattutto alle forti divergenze (eufemismo) tra De Pasquale e il collega Paolo Storari, il quale lo aveva invitato a depositare le prove a favore degli imputati del caso “Eni-Nigeria”. De Pasquale aveva replicato che non c’era nulla da depositare, arrivando a definire “un polpettificio” gli atti indicati da Storari. Sentiti in aula a Brescia nel corso del processo, i due colleghi della procura di Milano se ne sono dette di tutti i colori.
Il caso Tremolada e le dichiarazioni di Amara
Tra 45 giorni con il deposito delle motivazioni della sentenza di ieri ne sapremo certamente di più. La difesa ha già preannunciato l’Appello, perché la sentenza sarebbe un precedente pericoloso in quanto mette in discussione un principio fondamentale, l’autonomia delle scelte processuali del pm. Va ricordato che il particolare più inquietante della vicenda non era nel capo di imputazione e nemmeno in un procedimento disciplinare, perché non poteva esserci. Si tratta del tentativo da parte della procura di Milano di “liberarsi” del presidente del processo “Eni-Nigeria”, Marco Tremolada, perché ritenuto troppo sensibile alla richieste difensive. Per cui, dando credito a quanto riferito dall’ex avvocato dell’Eni Piero Amara, sugli avvocati Paola Severino, ex ministro della Giustizia, e Nerio Diodà in grado di “avvicinare” il giudice Tremolada, l’allora procuratore capo di Milano, Francesco Greco, mandava quelle dichiarazioni a Brescia.
Il tutto veniva archiviato come insignificante. E va pure ricordato che quando lo stesso Amara, invece, aveva parlato della loggia Ungheria, la procura non aveva subito proceduto con l’iscrizione tra gli indagati delle persone chiamate in causa, tra cui molti magistrati. Mentre parole del valore inferiore alle chiacchiere da bar sugli “avvicinatori” erano state ritenute degne di considerazione. Almeno Cesare Previti, per liberarsi di giudici ritenuti scomodi, presentava formale dichiarazione di ricusazione. Qui, da parte della procura si era agito in modo subdolo.