Riccardo Noury, Portavoce di Amnesty Italia: Dopo Gaza, il Libano. Uno Stato sovrano invaso, nel nome del diritto di difesa, da un altro Stato sovrano: Israele. Il “diritto di difesa” può giustificare tutto?
Come ogni Stato, Israele ha il diritto – e dunque il dovere, ai sensi del diritto internazionale – di proteggere tutte le persone sotto il suo controllo e di assicurare la sicurezza del suo territorio.
Se da oltreconfine il territorio di Israele è regolarmente bersaglio di migliaia di razzi, è evidente che dev’essere protetto e difeso. Va da sé. Ma il concetto di difesa, che ormai si sta estendendo anche a quello di difesa preventiva (agire per primi in vista di un possibile attacco del nemico), non può essere un passepartout per violare il diritto internazionale. Quindi la risposta è no.
In Libano abbiamo visto applicata in queste settimane la stessa strategia che l’esercito israeliano ha seguito a Gaza per un anno. Pesanti bombardamenti su aree densamente abitate, il trasferimento forzato di un quinto della popolazione, attacchi indiscriminati come quello contro i cercapersone di Hezbollah, fatti esplodere senza curarsi di chi fosse intorno ai miliziani. Non c’è un luogo sicuro per i civili in fuga. La popolazione civile libanese sta già pagando un prezzo altissimo in questo, speriamo breve e limitato, periodo di bombardamenti e di invasione di terra. Sta rivedendo l’incubo delle invasioni israeliane del 1978 e del 2006. Il 23 settembre, giorno dell’inizio dell’operazione militare israeliana denominata “Frecce del Nord”, c’è stato il più alto numero di vittime in un solo giorno dal 1990, anno della fine della guerra civile: almeno 558 e una su dieci era un bambino; i feriti sono stati oltre 1800. Negli 11 mesi precedenti gli attacchi israeliani in Libano avevano causato 589 morti, quelli di Hezbollah 34 in Israele e 12 nel Golan occupato. Da anni, l’esausta popolazione libanese paga anche il prezzo di un’amministrazione statale fallita, per colpe non solo ma anche di Hezbollah (chissà se e quando un’indagine internazionale indipendente chiarirà se e quali responsabilità abbia avuto nella spaventosa esplosione di 3000 tonnellate di nitrato di ammonio nel porto di Beirut, il 4 agosto del 2020…). La gente non è neanche più in grado di trovare medicinali a prezzi accessibili: dal 2018 al 2022 il governo ha ridotto le spese sanitarie del 40 per cento e i fondi destinati ai centri per le cure mediche primarie (quelli che forniscono servizi medici gratuiti o a basso costo) sono rimasti fermi al tre per cento. Contemporaneamente, il numero delle persone che si sono rivolte ai centri è aumentato del 62 per cento.
Mentre la guerra estende i suoi confini, divenendo guerra regionale, una cappa di silenzio è calata sulla tragedia di Gaza. Un silenzio complice.
Comincerei col chiarire una cosa, dato che siamo ancora molto vicini al 7 ottobre. Se non diciamo in modo netto che quel giorno Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno commesso atrocità, qualificate nell’indagine del procuratore della Corte penale internazionale come crimini di guerra contro l’umanità e i cui effetti, in termini di lutto per i morti e angoscia per gli ostaggi, perdurano ancora, non siamo credibili nel denunciare cosa sta succedendo dall’8 ottobre 2023 a oggi. Il silenzio di questi giorni su quanto sta continuando ad accadere nella Striscia di Gaza occupata non mi meraviglia. Gran parte dei nostri mezzi d’informazione segue un tema alla volta (sarebbe interessante conteggiare quanti articoli sono stati pubblicati sulla spaventosa crisi umanitaria e dei diritti umani in corso in Sudan dall’aprile 2013, seconda forse solo a quella di Gaza) e tende a occuparsi di ciò che fa Israele. Assai meno si occupa delle vittime di quello che Israele fa: vittime che a volte, nei titoli dei principali quotidiani, non meritano neanche il participio “uccisi”, è sufficiente descriverli come “morti”. Quindi si parla di Libano e Iran, mentre nella Striscia di Gaza continuano gli attacchi dell’esercito israeliano contro luoghi di riparo, con la giustificazione che in quei luoghi si nasconderebbero uomini armati di Hamas: circostanza che anche Amnesty International ha acclarato in almeno due casi ma che non giustifica l’enorme numero di vittime civili che accompagna il vantaggio militare conseguito. Per il diritto internazionale, aggirato sempre più dal “diritto del più forte”, si tratta di attacchi sproporzionati, ossia crimini di guerra. Gli ennesimi. Avete più letto qualcosa sulla fame nella Striscia di Gaza? Gli aiuti umanitari stanno entrando a profusione e oltre due milioni di persone improvvisamente sono ben nutrite?
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La destra estrema che è parte del governo Netanyahu considera la Cisgiordania come parte della Grande Israele. Siamo oltre l’apartheid denunciato da Amnesty International?
L’occupazione è parte integrante del sistema di apartheid israeliano contro le persone palestinesi. Che sia illegale, oltre alle organizzazioni per i diritti umani e agli esperti di diritto, lo afferma ora anche la Corte internazionale di giustizia. Tra l’altro, all’ombra della guerra nella Striscia di Gaza, la situazione nella Cisgiordania occupata è peggiorata ulteriormente, con raid costanti, arresti di massa, uccisioni di centinaia di palestinesi e impunità garantita ai coloni, che ormai devono essere considerati una milizia armata sostenuta dallo stato israeliano, o almeno da parti di esso come i ministri Smotrich e Ben- Gvir.
Israele si considera, e viene considerata dalla stampa mainstream italiana, l’ “unica democrazia del Medio Oriente”. Ma una democrazia può conciliarsi con l’occupazione di territori e la sottomissione di un altro popolo?
Premesso che Amnesty International non dà punteggi di democrazia ma rileva le violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno degli stati, democrazie o governi autoritari o regimi militari che siano, la domanda dovrebbe essere: quante e quali persone beneficiano di quella democrazia? Israele ha una stampa libera che il resto della regione si sogna di notte e anche di giorno, ma impedisce ad al-Jazeera di fare il suo lavoro. Consente lo svolgimento di manifestazioni, amplissime da oltre un anno, di fronte ai luoghi del potere, ma reprime con la forza, anche mortale, quelle che si svolgono nel Territorio palestinese occupato, anche solo per festeggiare il ritorno a casa di un ex prigioniero. Ha un sistema giudiziario che rivendica la propria indipendenza dal potere esecutivo, ma nel Territorio palestinese occupato la violenza dei coloni rimane impunita in oltre il 90 per cento dei casi. È evidente, dunque, che dove c’è l’occupazione la democrazia non arriva (in realtà non c’è neanche nello Stato di Palestina governato da Abu Mazen e dai suoi feroci servizi di sicurezza). Di nuovo, l’occupazione e tutto ciò che ruota intorno a essa (insediamenti, usurpazione di terre, violenze dei coloni, amministrazione della giustizia affidata ai tribunali militari) è il problema dei problemi.
Amnesty International ha documentato in tutti i suoi rapporti annuali e altro, lo spregio di diritti umani, le esecuzioni capitali, la brutale repressione contro le donne da parte del regime degli ayatollah. Ma la guerra è la via per dare libertà a quel popolo?
Pochi giorni fa in Iran c’è stata la cinquecentesima impiccagione dall’inizio del 2024. Mentre scrivo, siamo arrivati a 516. La tortura e il diniego di cure mediche sono la regola nelle prigioni, piene di persone che hanno solo esercitato il loro diritto alla libertà d’espressione e di protesta pacifica. Le minoranze etniche e religiose sono oppresse. Le attiviste per i diritti umani definiscono apartheid di genere la discriminazione istituzionale e sistematica contro le bambine, le ragazze e le donne. Ma per rispondere alla domanda devo, anche in questo caso, fare una premessa. Amnesty International si occupa delle violazioni dei diritti umani commesse dagli stati, non della legittimità o meno di chi è al governo. Ad esempio, non invochiamo mai il cosiddetto “regime change”, ma formuliamo richieste su come i governi debbano rendere coerenti le loro azioni col diritto internazionale. Detto ciò, è singolare che l’opzione “guerra per cambiare il regime” (che per Israele chiuderebbe i conti con “l’asse della resistenza”) sia presa in considerazione adesso, mentre le violazioni dei diritti umani nella Repubblica islamica iraniana vanno avanti da quasi mezzo secolo.
In realtà, quell’opzione era stata presa in considerazione già una volta: quando l’Occidente – secondo lo schema per cui l’amico è amico finché è utile, poi diventa nemico – aveva armato fino ai denti l’Iraq di Saddam Hussein nella guerra 1980-1988 contro l’Iran che causò milioni di morti e feriti permanenti. Ma “il regime degli ayatollah” è rimasto al suo posto e ha cementato il suo potere facendo piazza pulita dell’opposizione interna. Certo, all’interno della diaspora iraniana in Occidente c’è chi approva un intervento militare israeliano che produca o favorisca un cambio di regime, ad esempio il ritorno della monarchia. Sulle piattaforme social non mancano utenti con accanto al nome le bandiere dei due stati, Israele e Iran. Ma la domanda la si dovrebbe porre, in primo luogo, ai movimenti di iraniane e iraniani che lottano nel paese per affermare i loro diritti, nelle piazze, nelle arti e purtroppo nelle carceri. Ad esempio, alla Nobel per la pace 2023 Narges Mohammadi, che resta coerente con l’onorificenza ricevuta. Ho letto sui social questo post: “Se Israele vuole essere davvero vicino al popolo iraniano, non ci bombardi”. Forse è la risposta migliore alla sua domanda.