La visione della cultura della destra

Alessandro Giuli, il ‘Mascetti nero’ e il discorso oscuro e ridicolo bocciato da Aristotele

Il filosofo greco sconsigliava l’uso di locuzioni rare, pena l’insuccesso. Ma il problema del discorso del ministro non è la ricercatezza, o l’ambizione, quanto la povertà del messaggio che si cela in perifrasi tanto arzigogolate

Editoriali - di Michele Prospero

15 Ottobre 2024 alle 14:30

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Alessandro Giuli, il ‘Mascetti nero’ e il discorso oscuro e ridicolo bocciato da Aristotele

Il problema dell’ormai celebre intervento “teoretico” del ministro Giuli a Montecitorio (davanti alle commissioni Cultura di Camera e Senato) non è rappresentato dalla complessità. Se neppure al cospetto di deputati e senatori – quindi di una platea che si presume di qualità – è lecito azzardare un ragionamento articolato, allora la decadenza dell’oratoria politica è davvero irreparabile. Visto poi che Giuli seguiva un testo messo per iscritto, la possibilità di raggiungere vette più ambiziose e concedersi persino qualche tecnicismo, senza tuttavia perdere in organicità semantica, era una opzione del tutto legittima.

Ciò che risalta, in un’esibizione divenuta una sorta di sketch involontario, non è tanto la difficoltà del tema trattato, quanto lo scarto eccessivo fra i singoli lemmi astrusi infilati nella declamazione e l’accessibilità disarmante del loro contenuto dopo averlo riassunto con una frase sintetica. Più che le supercazzole snocciolate da un aspirante “Mascetti nero”, si nota l’incongruenza di una successione di distinti suoni verbali che non imprimono, una volta correlati, una trasparenza d’insieme all’asserzione fatta. È parso dunque azzeccato accostare, come ha proposto Blob, la performance del ministro alla indecifrabilità di uno sfuggente brano di Franco Battiato. Immergendosi in ridondanti immagini metaforiche, civettando finanche con il lessico hegeliano, il responsabile della Cultura intendeva conferire un’apparenza di profondità all’eloquio. E però, alleggerito dalla leziosità sintattica e dagli orpelli retorici adagiati con una certa pesantezza, il dispositivo sonoro ha svelato per converso una povertà nel significato del messaggio. Aristotele può aiutare a risolvere la questione in radice.

Il Problema dell’Intervento del Ministro Giuli

Qualsiasi argomentazione che si presenti densa di “termini ambigui” oppure aggiustata attraverso “lunghi giri di parole”, per l’autore della Retorica, smarrisce la sua capacità di convincere. Essa, anziché trasmettere all’ascoltatore una sembianza di ricchezza contenutistica, sparge una esagerata sequela di vocaboli ricercati che nel destinatario produce immancabilmente “l’effetto opposto, che è quel che si fa quando non si ha nulla da dire ma si finge di dire qualcosa”. Per evitare un simile esito, il quale con l’alimentare una scontata sensazione di vuoto accompagna sempre all’insuccesso l’elocuzione, Aristotele sconsigliava l’utilizzo incontrollato di locuzioni rare, di aggettivazioni esotiche. Al fine di scampare l’insignificanza, egli prescriveva la regola per cui, dinanzi al pubblico, “si deve dare l’impressione di parlare non artificialmente, ma naturalmente, perché quest’ultimo modo è persuasivo, mentre l’altro ottiene l’effetto contrario”.

La predilezione aristotelica per la semplicità espressiva – “in generale, quel che è scritto dovrebbe essere facile da leggere e facile da pronunciare” – non va fraintesa spingendola in direzione di una esposizione pigra e restia ad ogni formulazione ardita in grado di suggerire nessi penetranti. La linearità è il frutto di un’arte complicata che postula limpidezza della riflessione e conoscenza della materia. Precisava perciò Aristotele: “il discorso è una forma di segno, e pertanto se non chiarisce non svolgerà la propria funzione”. Farsi capire dall’uditorio non equivale a rinunciare all’apprensione acuta del senso delle cose.

Le citazioni del ministro Giuli

Il secondo caso di comunicazione oggi al centro della discussione, il canto rap o il trascinamento emotivo per un eroe di Ballando con le stelle, rispetto alla vicenda di Giuli palesa invece il vizio inverso. Rincorrendo una costruzione “troppo elevata”, il ministro è inciampato per colpa di uno stile definito da Aristotele “ridicolo e freddo, e anche oscuro a causa della verbosità”. Con un periodare che il filosofo greco classificava come “umile” giacché, all’inseguimento del modello di Euripide, “ricavava le parole dalla lingua corrente”, la leader dell’opposizione è scivolata piuttosto nella presunzione che il popolo reale avesse le stesse preferenze e i medesimi gusti ipotizzati dall’élite quale mentalità tipica della gente comune (gli abitanti delle aree interne e delle periferie da riconquistare).

Se il titolare di via del Collegio Romano ha fallito nell’illustrare il suo programma poiché non ha intuito che accumulando – sono ancora spunti dello Stagirita – “parole su parole di fronte a chi già comprende, si demolisce la chiarezza oscurandola”, l’opposizione vacilla in quanto non avverte la voragine che separa il ricorso all’Aventino per frenare l’emergenza democratica dal rifugio scanzonato nei simboli evasivi dello spettacolo pop. Tra il falso balzare in alto e l’ingannevole precipitare in basso, a latitare è comunque un solido punto mediano, la politica come governo del proprio tempo con un briciolo di pensiero.

15 Ottobre 2024

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