L'artificio del governo

Non è un decreto a rendere sicuro un Paese: quali sono i regolamenti europei che l’Italia non può stravolgere per legge

La definizione giuridica di paese di origine sicuro è sancita da regolamenti europei. Ci sono parametri stringenti, che rimandano al rispetto di diritti e libertà inderogabili. Il governo italiano non può stravolgerli per legge

Editoriali - di Gianfranco Schiavone

23 Ottobre 2024 alle 13:00

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Foto Mauro Scrobogna / LaPresse
Foto Mauro Scrobogna / LaPresse

Con decreto legge non ancora passato al vaglio del Presidente della Repubblica e non quindi ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale nel momento in cui scrivo queste riflessioni, il Governo italiano, il 21 ottobre, ha emanato un decreto legge che prevede di inserire in tale decreto, quale sua parte integrante, l’elenco dei paesi di origine considerati sicuri dal Governo italiano.

Ad avviso del Ministro Nordio “nel momento in cui l’elenco è inserito in una legge, il giudice non può disapplicarla”. Sta in questa finalità, dichiarata senza veli, la sola ragione alla base della decisione del Governo di mettere mano all’ennesimo decreto legge. Una finalità che non può essere legittimamente realizzata perché in contrasto con l’ordinamento giuridico: la normativa europea in materia di asilo è sovraordinata a quella interna e il giudice nazionale è tenuto ad applicare la norma sovraordinata seguendo i criteri interpretativi che gli vengono dettati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Camera, la quale, nella sentenza del 4 ottobre 2024, ha chiarito in via definitiva che nell’ambito dei procedimenti di impugnazione il giudice “deve dedurre, sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati a sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad esso (se c’è) una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione (di paese di origine sicuro), enunciate all’allegato I di detta direttiva” (si tratta della Direttiva 2013/32/UE sulle procedure).

All’esatto opposto di ciò che ritiene erroneamente il Governo italiano, il giudice dunque deve valutare se il Paese in oggetto è realmente di origine sicuro oppure no e non può limitarsi ad applicare in modo automatico la decisione dell’Esecutivo italiano. Lo deve fare, a mio modesto avviso, anche in sede di convalida e non solo in sede di impugnazione di un rigetto della domanda di protezione, in quanto interviene sulla legittimità o meno della compressione della libertà personale legata all’applicazione della procedura. La funzione di fondo della giurisdizione è proprio quella di effettuare “un esame completo ed ex nunc” sulle decisioni assunte dall’amministrazione al fine di valutarne la legittimità rispetto al diritto dell’Unione. In caso di contrasto tra ciò che la legge interna gli chiede di fare e la sovraordinata legge dell’Unione Europea il giudice deve applicare la norma europea e disapplicare la norma interna contrastante con quella europea, o se ritiene permangano dubbi interpretativi sollevare eccezione di non conformità del diritto interno a quello UE.

La Commissione sui CPR (Unità 22.10.24) delle Camere Penali sostiene che avere lasciato ai singoli stati nazionali di decidere quale siano i paesi di origine sicuri e quali non lo siano “attribuisce al singolo magistrato una responsabilità enorme, in una materia come quella migratoria” ed auspica una riforma che preveda che sia l’UE a stabilire quali siano i paesi di origine sicuri. È un richiamo condivisibile (e che purtroppo non verrà risolto dal futuro Regolamento procedure che entrerà in vigore nel 2026 perché esso mantiene – irragionevolmente – la possibilità di decisioni difformi tra i diversi stati membri nel designare quali siano i paesi di origine sicuri) ma deve rimanere chiaro tuttavia che al giudice spetterà sempre, in ogni quadro normativo, una grande responsabilità nello svolgimento della sua funzione di garanzia in quanto è tenuto a verificare se, nel concreto esame del caso concreto posto alla sua attenzione, il paese asseritamente sicuro, lo sia veramente o non lo sia.

Tra le molte dichiarazioni di questi giorni di esponenti del Governo che mi hanno profondamente allarmato vi sono quelle del sottosegretario Mantovano, il quale ha sostenuto che le decisioni del Tribunale di Roma avrebbero come effetto quello di far sì che “il meccanismo dei rimpatri semplicemente non esiste più e dovremmo rendere conto in sede europea del perché non tuteliamo i nostri confini”. Si tratta di una straordinaria sciocchezza e il sottosegretario non può non saperlo. La questione di cui si sta dibattendo non ha nulla a che fare con i rimpatri in quanto attiene a quale sia la procedura corretta da applicare (procedura ordinaria o procedura accelerata, con o senza trattenimento) e l’esame della domanda di asilo si può concludere in tutte le ipotesi con un accoglimento o con rigetto; nella seconda ipotesi quindi con un rimpatrio.

Sempre rimanendo in tema di opinioni ardite, torno al ministro Nordio che ha sostenuto che “abbiamo solo anticipato (…) una normativa che entrerà in vigore nel 2026 e che riteniamo essere ancora più stringente” dimenticando che la riforma del sistema europeo di asilo, fatta da ben nove regolamenti, alcuni di essi totalmente nuovi, e di una direttiva rifusa (quella sull’accoglienza), non è un libero mercato dove uno Stato va e sceglie a piacimento un pezzo delle future norme in quanto ne ha immediato interesse politico e lascia in caldo il resto. La riforma del sistema UE d’asilo, di segno indubbiamente iper restrittivo – come ho avuto modo più volte di scrivere – è un percorso complesso fatto di nuove procedure, criteri e bilanciamenti, che si chiuderà, non a caso, tra quasi due anni.

Vengo verso la conclusione al punto su cui più mi preme richiamare l’attenzione del lettore, ovvero su cosa si debba intendere con la nozione giuridica di paese di origine sicuro nel vigente Regolamento e anche in quello che entrerà in vigore nel 26. La definizione è contenuta nell’allegato 1 del Regolamento 2023/32/UE e prevede che “un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni (come definite dal diritto UE) né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Per effettuare tale valutazione si devono esaminare le leggi e i regolamenti del paese in esame, la loro reale attuazione, l’esistenza di un sistema di ricorsi effettivi, il rispetto del principio di non-respingimento dei rifugiati, e “il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (in particolare di quei diritti della convenzione da cui non si può derogare), nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.

Molto, comprensibilmente, ci si è concentrati in questi giorni sulle conclusioni della CGUE laddove ha richiamato la necessità che le condizioni di rispetto dei diritti fondamentali devono essere uniformi in tutto il territorio, ma ciò ha finito involontariamente per mettere in ombra il fatto che la nozione di paese di origine sicuro richiede la sussistenza di un ordinamento democratico, de iure e de facto. I parametri di valutazione che vanno applicati, in particolare il rinvio ai diritti sanciti dalla CEDU, sono definiti dalla norma UE in modo molto stringente e non consentono in alcun modo di definire un paese di origine sicuro sulla base di un libero e discrezionale atto politico, in particolare quando il contrasto tra ciò che si afferma esistere e la situazione reale di generale violazione dei diritti fondamentali risulta stridente. Nella designazione di paesi sicuri di molti dei paesi che compaiono nella lista del Ministero degli Esteri tale contrasto è così palese da portare a concludere che è stato attuato un profondo stravolgimento delle norme vigenti per inammissibili fini politici.

Questo quadro giuridico mi sembra altresì non destinato a mutare nelle sue coordinate di fondo con il futuro regolamento UE sulle procedure che prevederà la possibilità che la designazione di paese di origine sicuro “può essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili”. Si tratta di casi molto circoscritti e particolari che non mettono in discussione i principi generali del diritto europeo che impongono la verifica dell’esistenza di una condizione di sicurezza generale ed uniforme per ritenere un paese di origine sicuro. Lo ha ricordato già la stessa CGUE che nella citata sentenza non ha mancato di riconoscere che nelle previsioni del futuro Regolamento 2024/1348/UE (procedure) “la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro a livello sia dell’Unione che nazionale può essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio (….) purché quest’ultimo rispetti le prescrizioni derivanti in particolare dalla Convenzione di Ginevra e dalla Carta” dei diritti fondamentali dell’UE.

La questione di una reale ed approfondita analisi della situazione dei diversi paesi di origine era stata già ben colta da mesi da diversi Tribunali italiani che in situazioni che non hanno attirato un’attenzione politica e mediatica così virulenta come quella attuale, avevano già valutato come non sicuri molti paesi ritenuti invece sicuri dall’Esecutivo, sia in casi di mancata convalida del trattenimenti in hotspot ubicati in Italia, sia in sede di impugnazione dei dinieghi (tra i diversi provvedimenti, cito il Tribunale di Firenze con sentenza ancora del 26/10/2023 RG n. 3773/2023 -3 sull’impossibilità di ritenere paese di origine sicuro la Tunisia). Il Governo italiano ha deciso, per suoi interessi politici, che il mondo è d’improvviso diventato migliore e più sicuro; per legge. Ma non è così.

23 Ottobre 2024

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