Il direttore di Limes

Parla Lucio Caracciolo: “Gli Usa non moriranno per Kiev ma lo faranno per Israele, mentre Bibi deve evitare una guerra civile”

«Le prediche e le dichiarazioni di Blinken lasciano il tempo che trovano, Washington continua a dare agli israeliani armi fondamentali», dice il direttore di Limes.

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

25 Ottobre 2024 alle 07:00 - Ultimo agg. 25 Ottobre 2024 alle 09:48

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Photo credits: Giulia Palmigiani/Imagoeconomica
Photo credits: Giulia Palmigiani/Imagoeconomica

Un volume prezioso. Un tentativo, ben riuscito, di ragionare sulla tragedia mediorientale senza paraocchi ideologici o sterili partigianerie, incrociando analisi, punti di vista di studiosi e attori di un conflitto infinito. È La notte di Israele, il volume di Limes, la più antica e autorevole rivista italiana di geopolitica, diretta da Lucio Caracciolo, da ieri nelle edicole e librerie. Una riflessione collettiva dolorosa, partecipe. Fin dall’incipit dell’editoriale: «Israele sta combattendo con successo la sua guerra di autodistruzione. Nelle parole del generale Udi Dekel, a un anno dalla mattanza del 7 ottobre: ‘E’ evidente che la leadership israeliana vede all’orizzonte solo la guerra perpetua. Il conflitto in corso beneficia solo i nemici di Israele e si allinea alla strategia iraniana che promuove una guerra di attrito contro Israele fino al suo collasso finale”».

Dietro la “notte”, rimarca il direttore di Limes, «c’è una ragione indicibile che spinge Israele a rischiare il sacrificio di sé. Il terrore della guerra civile. La guerra esterna serve quantomeno a rinviarla. Nell’equazione bellica non sono considerate le ricadute sulla diaspora, minacciata in terre infedeli e talvolta complici della furia antisemita, sequenza ultima dell’antisionismo predicato anche da una minoranza ebraica. Si nega così il principio stesso dello Stato di Israele protettore di tutti gli ebrei. Il suicidio è già mezzo compiuto». Quella in atto, in un mondo che sempre più sta diventando Caoslandia, è una crisi, guerra, tragedia umanitaria, che ci investirà, come Europa, come Italia. Avverte Caracciolo: «Un giorno ci accorgeremo dei veleni che stiamo assimilando dal 7 ottobre. Il nuovo antisemitismo non si esaurirà con la sospensione dei massacri in corso. Né riguarderà solo gli ebrei. Fa già parte della miscela di paura, intolleranza e razzismo istintivo scatenata dalla brusca accelerazione della storia cui siamo del tutto impreparati. Dal suo impatto sul Belpaese, assuefatto a vivere in tempo separato, senza passato né futuro. Ciascuno confitto nel suo fuso orario privato. Smart living».

E ancora: «Abbiamo rimosso la nostra condizione di ultima frontiera dell’Occidente, a ridosso di Caoslandia. Così ci finiamo dritti dentro. Vogliamo preoccuparcene? Se sì, battiamo un colpo. Per esempio. Se centinaia di migliaia di gaziani sopravvissuti alla rappresaglia di Netanyahu saranno scaraventati nel deserto egiziano o nel Mediterraneo per far posto a militari e nuovi coloni israeliani, scontato che alcuni punteranno alle nostre spiagge. Aspetteremo che ci affoghino davanti? Li trasferiremo in Albania per essere certi di non vederli? Escluso organizzarci per andarli a prendere, promuovendo una missione internazionale di volenterosi? La risposta a queste domande ci dirà molto su noi stessi».

La notte di Israele. È il titolo dell’ultimo volume di Limes. Perché la notte e che notte è, professor Caracciolo?
Una notte molto buia e lunga, visto che dura dal 7 ottobre del 2023. Ed è profonda, perché non riguarda semplicemente la già più che tragica dimensione bellica, ma, e su questo nel volume ci soffermiamo particolarmente, la situazione interna allo Stato ebraico, da cui la guerra direttamente deriva.
Mi riferisco al fatto che i nemici di Israele, nella fattispecie Hamas, hanno deciso di attaccare nel modo in cui hanno fatto quel 7 ottobre, perché si aspettavano un Israele indebolito. Razionalmente era un calcolo abbastanza fondato, come i dati di questi tredici mesi confermano.

Indebolito Israele non solo sul piano militare ma anche per le sue divisioni interne?
Soprattutto per le sue divisioni interne che poi si esprimono anche nel fatto che Israele si sente costretto a combattere una guerra che contraddice tutti i suoi principi, a cominciare da quello che le guerre d’Israele debbano essere brevi, rapide e vittoriose. Quella in corso è una guerra lunga, la più lunga nella storia d’Israele, non è per niente facile il percorso di qui verso un traguardo che non è definito. Possiamo classificarla fra le guerre, oggi ahimè di moda, che non hanno né un fine specifico né tantomeno una fine.

Quanto c’è di ideologico nell’azione dell’attuale governo israeliano?
Se c’è una persona fondamentalmente pragmatica è Benjamin Netanyahu. Il fatto è che il suo pragmatismo si può nutrire, come in questo caso, di ideologia e più specificatamente di religione o se si preferisce di ideologia religiosa. C’è poi una parte di questo governo, quella della destra più radicale, ultrareligiosa, dei Ben-Gvir e degli Smotrich, che legge la guerra in termini strettamente biblici. Lo stesso Netanyahu lo fa, tanto è vero che nel suo appello, successivo al 7 ottobre, afferma, rivolto ai suoi soldati: “Ricordate quel che vi ha fatto Amalek!”, Archetipo biblico del Male, proditorio aggressore degli israeliti, che ortodossia biblica impone di distruggere. Siamo al primo Libro di Samuele. Per ricordare che “da migliaia di anni a fondamento dell’esistenza del popolo ebraico è stata la lotta costante per le nostre vite e per le nostre libertà”. Insomma, da Giosuè a Bibi, i soldati dell’eterno Israele si certificano eternamente belligeranti.

Cosa resta della questione palestinese?
Restano i palestinesi. Sempre di meno, peraltro, visto il ritmo con cui la rappresaglia ebraico-israeliana li colpisce. Ciò non impedisce al popolo palestinese di confermarsi una non-nazione. Nel senso che si tratta di una popolazione attraversata da differenze di vario genere.

Quali?
Innanzitutto, dal punto di vista del rapporto con lo Stato di Israele. Perché un paio di milioni di palestinesi sono cittadini israeliani, cittadini di serie B, d’accordo, con molte limitazioni, tra cui quella di non poter combattere nelle Forze armate israeliane, ma anche cittadini israeliani di origine palestinese che non si sono rivoltati contro il loro Stato di appartenenza per solidarietà con gli altri palestinesi, a cominciare dai gazani. In secondo luogo, ci sono i palestinesi di Gerusalemme Est, che godono di uno statuto particolare, nel senso che sono residenti, quindi in qualche modo sono in una situazione ambigua, non possono votare per la Knesset (il Parlamento israeliano, ndr), in una dimensione intermedia tra i cittadini d’Israele e i palestinesi dei Territori occupati che vivono una condizione ormai pluridecennale di occupazione e che anche vivono, in queste settimane, l’avanzamento delle posizioni dei coloni, in particolare nella West Bank.

Nel marzo del 2023, ben prima del 7 ottobre, Limes pubblicò un volume che, visto alla luce dell’oggi, appare “profetico”. Il titolo è Israele contro Israele”, con il sottotitolo “Le tribù eccitano la crisi d’identità. Se i militari si ribellano agli ordini. Di chi è lo Stato ebraico?” Le chiedo: c’è una tribù che ha vinto sulle altre?
Ce ne è una che ha guadagnato molto terreno, ma non una che abbia vinto. Mi riferisco a quella dell’estremismo ultrareligioso, ultranazionalista, quella dei Ben-Gvir, degli Smotrich e associati, i quali hanno perso ogni inibizione e parlano apertamente di distruggere Gaza, di ricolonizzarla, di mandar via, eventualmente accompagnandoli con la forza, i palestinesi dai territori che loro considerano pertinenti a Eretz Israel, la Terra d’Israele, a cominciare da Giudea e Samaria, cioè dalla Cisgiordania, cioè dai Territori occupati.
Con il 10-11% dei consensi, sono diventati un fattore decisivo. Senza di loro, il governo Netanyahu finisce.

La forza di Netanyahu e di questa “tribù” dell’ultradestra sta anche nella debolezza dell’opposizione?
Sì. È una opposizione che da un punto di vista numerico, se intendiamo per opposizione i cittadini che non sono per niente d’accordo con Netanyahu, è molto forte, forse anche maggioritaria. Allo stesso tempo, non dimentichiamo che siamo in guerra, e questo già di per sé ha un effetto di relativo compattamento. Ma nel momento in cui la guerra fosse in qualche modo fermata, non risolta con una pace che è impossibile ma fermata, queste differenze verrebbero alla luce più chiaramente, e verrebbe meno il fattore di solidarietà bellica.

Il numero di Limes esce nei giorni dell’undicesima missione in Israele e in Medio Oriente del Segretario di Stato americano Antony Blinken. Un numero irrituale.
Un numero che segnala la vanità di queste missioni. Nel senso che a forza di andare lì, Blinken non ha risolto quasi nulla. Le sue prediche, ed anche le sue dichiarazioni, qualche volta anche critiche nei confronti delle autorità israeliane, lasciano il tempo che trovano, anche perché, sia pur con diverse limitazioni, l’America continua a dare armi fondamentali allo Stato di Israele.
Se si può fare un paragone, che apparirebbe poco politically correct ma lo faccio lo stesso, direi che ormai il rapporto fra Israele e l’America, somiglia molto a quello fra gli ucraini e l’America, nel senso che l’America non vuole e non può fare la guerra ma arma coloro che la fanno. La differenza fondamentale è che gli americani non moriranno mai per l’Ucraina, rischiano invece di morire, senza virgolette, per Israele, dato i rapporti, anche sentimentali, che legano americani e israeliani.

Il 4 novembre, gli americani eleggono il nuovo presidente. Cambierebbe qualcosa di sostanziale, nelle dinamiche mediorientali, la vittoria dell’uno, Donald Trump, o dell’altra, Kamala Harris?
Sì, anche se non so fino a che punto ambedue abbiano delle idee davvero precise su che cosa fare. Certamente Trump viene considerato da Netanyahu un alleato. Non dimentichiamo che quest’ultimo ha sempre avuto un rapporto molto speciale con il partito Repubblicano e anche personale con Trump. Sicuramente Netanyahu brinderebbe alla vittoria di Trump, molto meno nel caso della vittoria di Harris. Che cosa farebbe la signora Harris, sono sicuro che non lo sappia neanche lei.

E l’Europa?
L’Europa, se l’intendiamo come Unione europea, non conta niente. Se l’intendiamo come singoli Paesi europei, abbiamo visto che Paesi storicamente molto vicini allo Stato di Israele, come la Francia, come la Gran Bretagna, hanno assunto delle posizioni piuttosto critiche nei confronti di Israele. Quanto all’Italia, che è sempre stata un Paese amico di Israele, checché se ne dica sul nostro filoarabismo, ha assunto una posizione verbalmente contenuta fino all’attacco ai nostri soldati dell’Unifil in Libano, però ha anche preso delle misure concrete nei confronti di Israele come la sospensione delle forniture di armamenti e munizioni. Ricordo che l’Italia era fino a ieri il terzo Paese quanto a fornitura di armi a Israele.

Parafrasando il titolo del volume di Limes, riprendendo una frase del grande Eduardo De Filippo: “Ha da passà ‘a nuttata” in Medio Oriente?
Speriamo che non finisca in modo apocalittico. Che ci si fermi prima. E soprattutto speriamo che il cessate-il-fuoco, in assenza di una possibilità di pace, apra anche una stagione negoziale e diplomatica nuova, perché altrimenti sarebbe soltanto una pausa fra combattimenti.

25 Ottobre 2024

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