Il conflitto Israele-Palestina
Come finire la guerra in Medio Oriente: il compromesso, l’unica soluzione possibile non è utopia
Perché siamo incapaci di sviluppare un pensiero sulla crisi in Israele? Dobbiamo riprendere dalla storia i momenti in cui non esisteva solo la forza ma la resistenza era basata sulla nonviolenza
Editoriali - di Filippo La Porta
Perché di fronte alla guerra del Medio Oriente molti di noi restano afasici, incapaci di dire qualcosa e perfino di produrre un pensiero? Semplicemente perché lì c’è solo la forza, nient’altro. Non ci siamo abituati. La mia generazione è cresciuta in un mondo dove la forza certo esisteva (la guerra civile strisciante dei ‘70, terrorismo e stragi di stato) ma non era mai l’ultima parola.
L’ultima parola spettava al pensiero, alle idee, alla capacità di convincere gli altri. Di questo parlavo ieri con un caro amico – il cui percorso politico è simile al mio, militanza ne il manifesto durante gli anni ruggenti (anni di piombo e di generose utopie), poi ripensamento critico ma fedeltà a una idea di “progresso”(certo non garantito), di possibile razionalità condivisa, – un amico della cui “sensibilità” mi fido molto. Discutendo di Israele e di terrorismo islamico non riuscivamo ad esprimere una nostra posizione sugli eventi terribili di questi mesi. Sollecitato da una sua considerazione sono arrivato a queste conclusioni.
Anzitutto: entrando nel merito del conflitto, delle sue radici profonde, della sua complicatissima storia geopolitica (che oggi quasi tutti ignorano, almeno noi tre libri sul Vietnam ce li eravamo letti!). Ognuno si può disporre diversamente, e in particolare lui e io, dopo aver tifato da giovani per Habbash, siamo oggi sensibili alle ragioni di Israele, che pur avendo attualmente un governo fascistoide, non è uno stato illegittimo e colonialista (nel mio caso fu Terracini a farmi venire i primi dubbi). Ma non vorrei entrare nel merito, e solo limitarmi a capire le ragioni del nostro smarrimento attuale. In quel contesto ognuno dei contendenti lotta – disperatamente, ferocemente – per la propria sopravvivenza, e dunque sul campo c’è, come ho detto prima, solo la forza.
Pensare diventa inutile, del tutto superfluo. Ha ragione solo chi vince.
Oggi – forse – Israele, ieri i tagliagole di Hamas, e domani l’Iran o chi volete voi. Chi in una situazione del genere prova a ragionare si sente subito tagliato fuori. Come se giocasse a un altro gioco, o non volesse schierarsi. Bisognerebbe ogni volta rileggere il dialogo tra i meli e gli ateniesi nella Guerra del Peloponneso di Tucidide. Gli ateniesi, di fronte alle suppliche dei meli (che in seguito furono da loro sterminati), alle loro richieste di giustizia e alle loro dichiarazioni di amicizia, risposero con una logica spietata ma coerente e non priva di fondamento: “Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi… E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza”. Ecco, questa è la “legge” del cosmo (impersonale e ineluttabile): la forza, la potenza. Chi è più forte comanda. Il resto sembra chiacchiera e ipocrisia. Ce ne eravamo dimenticati, noi che in Europa non abbiamo mai lottato per sopravvivere.
Eppure, agli ateniesi – cui darebbero ragione Machiavelli, Nietzsche e tutti i teorici del realismo politico – bisogna pur saper rispondere. Chissà se ne siamo capaci. Ci ha provato Simone Weil, convinta che se avessero ragione gli ateniesi allora avrebbe ragione Hitler. A loro obiettava che se la forza è assolutamente sovrana allora la giustizia diventerebbe assolutamente irreale: “Ma non lo è. Lo sappiamo per via sperimentale. Essa è reale in fondo al cuore degli uomini”. Insomma, alla fine la Weil contrappone alla forza l’amore, che pure è altrettanto operante nella realtà del cosmo. Parlare di amore ci sembra sempre un po’ melenso o retorico. Ma oggi significa per noi una sola cosa: dare più spazio e visibilità a tutto ciò che, nei due fronti contrapposti, va precisamente in direzione dell’amore (se ne parla pochissimo).
Penso a cose come il progetto Saving children del Peres Center for peace and innovation di Tel Aviv (in cui vengono ricoverati in ospedali israeliani bambini segnalati dal servizio sanitario palestinese). O all’organismo misto The parents circle – Families forum, oltre 600 famiglie in lutto, israeliane e palestinesi, con vittime nel conflitto e tra loro solidali. O anche alla lunga e nobile tradizione di strategie e lotte nonviolente sul versante palestinese, fin dagli anni ’30 (seguendo tra l’altro il Gandhi musulmano, Abdul Ghaffar Khan, leader del pashtun, del quale nessuno sa niente). E penso al Palestinian center for study of nonviolence, nato nel 1983, che individua 120 tecniche nonviolente di resistenza (boicottaggi, scioperi, non pagamento delle tasse, disobbedienza civile). O agli ulivi centenari che i coloni ebrei sradicavano, ma che durante la notte erano ripiantati (il doppio!), da palestinesi e israeliani. O alla prima Intifada, in cui l’uso della nonviolenza occupava l’85% del totale della resistenza.
Voi obietterete che non a caso la nonviolenza è stata sconfitta ed oggi è minoritaria. Infatti, oggi domina la forza – brutale, insensata – ma proprio perciò il nostro compito è, invece, mostrare di più e valorizzare tutto quello che vi si oppone. Nel 2002 Amos Oz scrisse un elogio solitario del compromesso: il contrario del compromesso non è l’integrità ma il fanatismo. Ora, accetta il compromesso, non lo vive come debolezza, solo chi non ritiene di essere il “bene” o di avere il monopolio della verità, come invece gli attuali gruppi dirigenti israeliani e palestinesi. Eppure, se sappiamo con certezza, come diceva la Weil, che la giustizia è reale nel cuore degli uomini – come tutti abbiamo pure sperimentato almeno una volta nella vita -, e se rimeditiamo le parole piene di saggezza dei meli, la ricerca del compromesso diventa forse meno utopistica.