Il Piano per il Medioriente
Gaza, un piano per la pace esiste: la sfida dell’israeliano Olmert e del palestinese Al-Kidwa per fermare le armi
L’ex primo ministro israeliano e l’ex ministro degli Esteri dell’Olp hanno stilato un piano di pace convincente che potrebbe chiudere una stagione di sangue: ma serve un colpo d’ala
Editoriali - di Mario Capanna
Ognuno è ebreo di qualcuno… oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele.
(P. Levi)
Potrebbe sembrare una bizzarria velleitaria, e sfiorare quasi la temerarietà, parlare in questo momento della pace in Palestina e Medio Oriente, mentre la guerra vi imperversa nelle forme più atroci e mette a repentaglio i destini di persone e popoli. Ma è proprio nel momento più buio che uno spiraglio di luce può apparire e, nel cataclisma della distruzione, illuminare il percorso della salvezza possibile. Va decisamente in questa direzione la recente proposta di pace elaborata da due illustri personalità, palestinese l’uno, israeliano l’altro: Nasser Al-Kidwa e Ehud Olmert. Si tratta di due esponenti politici ben noti ai propri compatrioti e nei circuiti delle relazioni internazionali.
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Olmert è stato primo ministro in Israele dal 2006 al 2009, periodo durante il quale si è distinto, fra l’altro, per l’operazione “Piombo fuso” a Gaza nel 2008, e per un fittizio piano di pace proposto ai palestinesi, che non conteneva nessuna garanzia di indipendenza dello Stato palestinese. Al-Kidwa è stato ministro degli Esteri dell’Autorità palestinese, ambasciatore all’Onu ed è, cosa che ne aumenta il prestigio, nipote di Yasser Arafat. Ambedue sono critici dinanzi alle situazioni politiche dei propri Paesi: Olmert rispetto a Netanyahu, Al-Kidwa nei confronti di Abu Mazen. È, a suo modo, un segno dei tempi il fatto che le due figure, che hanno rappresentato in passato visioni opposte, oggi, nello sfacelo del Medioriente, si trovino convintamente uniti nell’illustrare in giro per il mondo un piano di pace congiunto.
L’altro giorno lo hanno presentato a Papa Francesco, che si è detto “fortemente interessato”. Sono stati intervistati da L’osservatore romano e dalla trasmissione televisiva L’aria che tira. (Significativamente assenti le autorità del governo italiano e i grandi media). Nel concreto, il piano di pace prevede la liberazione degli ostaggi israeliani in cambio del rilascio di un certo numero di detenuti palestinesi, il ritiro israeliano da Gaza e la creazione, nella Striscia, di un governo “tecnico” palestinese, collegato all’Anp e supportato da una forza di pace interaraba, in modo da creare le condizioni per preparare lo svolgimento di elezioni democratiche sia a Gaza sia in Cisgiordania entro due anni. Il secondo punto del piano è la pacifica convivenza tra i due popoli attraverso i due Stati, basati su una reciproca cessione di territori: Israele si prenderebbe il 4,4% della Cisgiordania, dove sono concentrati gli insediamenti coloniali, in cambio della cessione di una porzione equivalente di territorio per creare un corridoio di collegamento tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
Sulla delicata questione di Gerusalemme i due politici propongono uno statuto speciale per la città, “che dovrebbe essere gestita da un’amministrazione fiduciaria di cinque Stati (fra i quali ovviamente Israele e Palestina), che abbia piena autorità su ogni parte della città, secondo le regole più volte indicate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu”. Per quanto riguarda la Old City, essa “dovrebbe essere fuori da ogni controllo politico e dedicata alle tre religioni monoteiste che la considerano luogo santo di preghiera”. Così Gerusalemme potrebbe essere benissimo la capitale dei due Stati: di Israele nelle parti che erano già sue prima del 5 giugno 1967, oltre ai quartieri ebraici costruiti dopo il ’67, che rientrerebbero in quello scambio di compensazioni territoriali del 4,4% di cui si è detto sopra; e sarà capitale della Palestina nella parte che includerà tutti i quartieri arabi che non facevano parte di Israele prima della guerra del ‘67.
Il piano di pace di Olmert e di Al-Kidwa non è una novità assoluta, per certi aspetti sistematizza parti di percorsi già emersi con gli accordi di Oslo e oltre. Ha, tuttavia, una sua originalità, sia per la doppia paternità sia per il carattere organico della proposta sia per il momento e il contesto in cui si inserisce. Naturalmente i due esponenti politici sono i primi a non farsi illusioni circa le difficoltà e i tempi di realizzazione del progetto di pace. Sanno bene che occorrerà una specie di rivoluzione di pensiero nella mentalità dei due popoli, che metta al primo posto la convivenza pacifica tra loro, in luogo della guerra che, senza accordo, rischia di diventare di fatto permanente, e senza fine. Ma, prima o poi, per fortuna la guerra stanca. Stanca i palestinesi, da più di 70 anni sopposti a ferocia, stanca, per la continua tensione, gli altri popoli arabi, e stanca gli israeliani, compresa si spera la parte fascista dei partiti religiosi e messianici.
Nonostante la potenza del suo esercito, le supertecnologie difensive, la protezione Usa-Ue, Israele mostra una crescente vulnerabilità: non c’è giorno, ormai, che non venga bersagliato da missili, droni, attentati. “Israele sopravvive alla giornata” e (…) “sta combattendo con successo la sua guerra di autodistruzione”: ha scritto Lucio Caracciolo, con pertinente analisi. Il quale aggiunge: “C’è una ragione indicibile che spinge Israele a rischiare il sacrificio di sé. Il terrore della guerra civile. La guerra esterna serve quantomeno a rinviarla”. Vero: ma per quanto? L’avventurismo israeliano – e occidentale – non poteva produrre frutti più velenosi. A questo si è giunti, a furia di garantire a Israele, da parte degli Usa, ogni impunità di fronte ai suoi crimini, compresi quelli contro l’umanità. In piena offensiva a Gaza la Knesset ha approvato, con appena 62 voti su 120, il no alla creazione dello Stato palestinese. A questo punto Israele e l’Occidente tutto hanno il dovere di rispondere a questa domanda: che cosa intendono fare dei palestinesi? Olmert e Al-Kidwa danno l’unica risposta razionale e concreta. Perché diventi reale occorre che i due popoli diano vita a nuovi dirigenti lungimiranti, che dicano ai propri cittadini non ciò che vogliono sentirsi dire, ma ciò che è necessario fare per avere futuro.