Concluso il vertice a Kazan
Chi sono i Brics e cosa chiedono: basta decisionismo strabico dell’Occidente
Chiedono multilateralità contro il decisionismo strabico dell’Occidente, che arma l’Ucraina ma non il Libano. Ma lo fanno in nome del dialogo e della cooperazione. La Cina contro la guerra
Editoriali - di Michele Prospero
È terminato con un vero e proprio inno alla virtù della mediazione, e alle connesse strategie di cooperazione per la risoluzione delle controversie, il sedicesimo vertice dei Brics radunati in rappresentanza del 45 per cento degli abitanti del pianeta. Sarà pure un “asse del Male” quello che collega Pechino, Mosca e Teheran, però al “negozio di chiacchiere” di Kazan si aggregano ormai senza remore anche alcune consolidate democrazie.
Per via di un acuto sentimento di marginalizzazione, nutrito verso il blocco dominante euro-atlantico che sterilizza il soft power già accumulato dai nuovi soggetti rilevanti, stati dinamici come l’India, il Sudafrica, il Brasile accorrono nel salotto del “macellaio” Putin allo scopo di recidere le perduranti esclusioni dalla gestione condivisa delle relazioni internazionali. Con il varo della Global Security Initiative, il cosiddetto Sud del mondo propugna il governo dei conflitti tramite composizioni consensuali che accantonino la spirale della pura forza. In ossequio ai superiori ideali dell’occidente, e contro ogni velleità di abbozzare una efficace direzione multipolare, il mondo libero presidia le sussistenti asimmetrie rintracciabili nell’assetto delle faccende sovranazionali, spalancando in continuazione sul volto degli intrusi i più crudi rapporti di dominio e sottomissione.
Nell’invocare una transizione alla multilateralità, i popoli in ascesa sfidano il primato geopolitico, economico e tecnologico dei vecchi esecutivi atlantici. Questi ultimi costituiscono suppergiù il 10 per cento della popolazione complessiva, generano circa il 30 per cento della ricchezza planetaria, ma sprigionano l’arroganza di un’illimitata influenza finanziaria e militare. Con l’invenzione della New Development Bank, alternativa alle parabole del Fondo monetario internazionale, le economie rampanti ambiscono a contrastare lo strapotere del dollaro negli scambi e ad avviare uno sviluppo sostenibile. Tensioni, rivalità, urti non mancano neppure tra i Brics, che coprono il 31 per cento della superficie terrestre, maneggiano il 20 per cento del commercio globale, detengono il 40 per cento delle risorse energetiche e petrolifere e producono il 37 per cento del Pil totale. Tuttavia, ad accomunare nazioni di quattro continenti con alle spalle tradizioni e culture molto diverse, è l’istanza ineluttabile di policentrismo e di democratizzazione degli affari esteri, da tracciare nel pieno coinvolgimento di aspirazioni e pretese eterogenee.
Nel discorso pronunciato dal leader cinese, la pace viene esaltata come il retroterra migliore per garantire la crescita. Egli accenna perciò alla “de-escalation della crisi ucraina” quale condizione per conservare le opportunità del modello occidentale (economia di mercato, tecnologia, diritto) e ottenere l’integrazione di ulteriori attori regionali alla ricerca di un coordinamento delle emergenze della tarda modernità (clima, ambiente, guerre, squilibri sociali). Da capannone industriale del capitalismo espansivo tutto proteso verso la unificazione dei mercati e l’abbattimento delle mura (o della Grande Muraglia) che ostacolavano la celerità dei traffici, la Cina, grazie all’abile inserimento nelle reti dell’interdipendenza, ha acquisito il rango di potenza imprescindibile. Il Celeste Impero dichiara di non volersi iscrivere ad un gioco a somma zero in cui lancia il guanto all’Ovest mediante reciproche punizioni e schemi di polarizzazione secca, intende al contrario irrobustire i meccanismi di dialogo che favoriscono la cessazione delle ostilità, l’innovazione verde e la collaborazione tra le parti.
Pur con differenze di toni e di sensibilità riscontrabili soprattutto sulle regole e i principi del costituzionalismo, Trump e Harris mostrano una omogenea volontà di chiusura della età felice della globalizzazione per difendere con la ritirata precipitosa l’egemonia del dollaro, la sicurezza delle catene di valore e la funzione d’ordine dei marines. Le metafore della soluzione armata a qualsiasi scompenso non sciolgono il vuoto della leadership a stelle e strisce, intaccata apertamente dalle pratiche di sterminio a Gaza, dalla violazione della sovranità territoriale del Libano, dall’adozione di un doppio standard dinanzi a comportamenti criminali degli eserciti e delle amministrazioni. L’autoreferenzialità del disegno americano di supremazia alimenta la prospettiva di una irreversibile accentuazione delle inimicizie e rigetta il percorso della compartecipazione alle decisioni. Chi in nome di minacce esistenziali provenienti dal Dragone respinge i tentativi che si prefiggono di fissare dei segnavia nell’ottica di un legame maggiormente equo tra il centro e le periferie, avvicina la fine dell’Europa, non a caso sempre più afona rispetto agli scenari critici.
Un desiderio di autoflagellazione ha spinto i due capifila continentali, Francia e Germania, a convivere con l’avanzata delle destre radicali le quali proliferano nello spirito del bellicismo e con lo spettro della recessione che sgonfia i fatturati del capitalismo renano. Interessi materiali vitali e contrazioni politiche allarmanti dovrebbero suggerire alle cancellerie europee di spegnere i grammofoni dell’ideologia della trincea fino alla vittoria per decodificare attentamente le parole che risuonano nell’incontro di Kazan, in vista di una riforma del sistema di governance mondiale attraverso gli strumenti pragmatici della “coesistenza pacifica” e della “armonia tra le civiltà”.