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Perché il PD cresce ma perde le elezioni

Foto Cecilia Fabiano/LaPresse

Foto Cecilia Fabiano/LaPresse

Il fallimento ligure brucia. Il successo nettissimo del Pd è un unguento potente ma non abbastanza da sanare la ferita di quella vittoria letteralmente regalata dal centrosinistra agli avversari. Colpa di Conte, dei suoi veti e dei suoi ricatti. Ma colpa anche di chi a quei veti ha obbedito, la segretaria Schlein, il candidato e dirigente di primissimo piano Orlando. Lo pensano in molti. Lo dice chiaramente solo Bettini:Ai veti è seguito un errore politico”. Ma sono riflessioni e malumori che per il momento non possono aver luogo a procedere.

Tra venti giorni si vota in Umbria e in Emilia-Romagna. Fino a un mese fa al Nazareno scommettevano sul 3 a 0, contando la Liguria. Ora temono l’1 a 2 e se poi si dovesse perdere l’Emilia rossa, eventualità più che remota, sarebbe la catastrofe. Ma dopo i sogni di gloria anche doversi accontentare di tenere la roccaforte sarebbe magra consolazione. I numeri parlano da soli. Dalle elezioni politiche in poi si è votato in 11 regioni: 10 sono andate alla destra e una sola, la Sardegna, al centrosinistra. Ma anche in quel caso la vittoria è dovuta alla forza della candidata Todde, non ai partiti che la supportavano, e soprattutto agli errori clamorosi del centrodestra che però, almeno, dopo quella cocente esperienza sembra aver imparato.

A sinistra non si può dire lo stesso. Renzi e Conte hanno ripreso a sbranarsi appena terminato lo spoglio, se possibile con più astio di prima. Il leader dei 5S resta imperturbabile di fronte non solo alla sconfitta ma al tracollo del Movimento: “Se ci fosse stato Renzi sarebbe andata anche peggio”. Significa che non ha alcuna intenzione di cambiare strada e provare a costruire una vera coalizione coesa rinunciando alla guerriglia. Il problema di Elly è tutto qui ed è maestoso come una montagna. È riuscita a rivitalizzare un partito esangue. Appoggiandosi anche all’istinto di sopravvivenza dei dirigenti ha messo a tacere le eterne guerre interne al partito. Per la prima volta dalla fondazione, il suo Pd inizia a sfoggiare qualcosa che somiglia a un’identità politica. In Liguria ha strappato un risultato che due anni fa non si sarebbe sognato neppure il più spericolato visionario. Però è destinata a perdere puntualmente le elezioni sia amministrative che politiche. Il problema si chiama Giuseppe Conte, non Matteo Renzi.

Il ragazzo di Rignano è quello che è, a sinistra ha calamitato nei suoi pochi anni di trionfo più animosità di chiunque altro, la sua concezione della politica e il modus operandi lo rendono per definizione poco affidabile. Ma in questo momento ha tutto l’interesse, anzi la necessità vitale, di essere leale e di collaborare, con la capacità che nessuno gli ha mai negato, a colmare il vuoto nell’offerta politica del Campo, largo o stretto che sia: qualcosa che si rivolga anche a quella fetta di mercato elettorale, centrista o moderato o comunque lo si voglia chiamare, che non si riconosce nelle tonalità politiche in realtà molto simili, quasi solo variazioni su un unico tema, del Pd era Schlein, del M5s e di Avs.

Conte no. Conte non vuole e forse non può essere leale. L’interesse del suo Movimento, o quello che lui ritiene essere tale, prevale su quello della coalizione, lo obbliga a minare la leadership dell’alleata quando e come può, col risultato di rendere la coalizione acefala, e a smarcarsi ogni volta che se ne presenta l’occasione, rendendo così il Campo non credibile neppure come mero cartello elettorale, figurarsi come coalizione politica. Sin qui il leader dei 5S si è sempre mosso convinto di avere le spalle coperte dalla specifica situazione del Movimento. A differenza del Pd, il Movimento, almeno per quello che è stato sinora, è per la stessa sua natura di partito di protesta in grado di reggere una nuova sconfitta elettorale avvantaggiandosi anzi della collocazione all’opposizione, e di non pagare pegno per la spaccatura dell’opposizione, dovendo temere anzi il contrario in nome della purezza violata. Ciò gli ha sinora garantito di trattare sempre a partire da una posizione strategica di forza.

Ma il voto della Liguria, prima di tutto, rivela che le cose forse non stanno più così e che si è ormai esaurito il ricco catalogo di parti in commedia che Conte è riuscito sin qui a fare senza mai pagarne il prezzo. In secondo e più incisivo luogo, la formula brandita sin qui da Elly, “Resto testardamente unitaria”, è suggestiva ma controproducente: sin qui non ha mai garantito unità se non di facciata e in compenso ha impedito di costruire una vera proposta politica avvertita come credibile dagli elettori.

Non si tratta, insomma, solo di superare i veti su Renzi, traguardo molto meno significativo di quanto non appaia, ma di decidersi a dar vita a un polo con una visione comune e regole interne, i due elementi che permettono alla destra di reggere senza traumi diversità non minori di quelle che ci sono a sinistra. Battere quella strada significa probabilmente perdere il M5s, almeno il M5s di Giuseppe Conte la cui leadership non è necessariamente eterna, o almeno essere disposti a farlo. Ma per Elly, se non vuole essere la leader di un forte partito perennemente sconfitto, non c’è altra via praticabile.