Il centrosinistra e la “lezione ligure”
Parla Nadia Urbinati: “Il M5S cambi pelle e lasci il populismo a Salvini”
«Prima diventano partito, meglio è. L’epoca del movimento “gentista” che sta di qua e di là e dice che non c’è né destra né sinistra è finita. Schlein? Ha dimostrato di essere tanto caparbia, generosa, quanto gentile. La ammiro»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Il centrosinistra e la “lezione ligure”. Il paradosso-Pd: vincente ma perdente. L’Unità ne discute con Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla Columbia University di New York.
Professoressa Urbinati, cosa ha rappresentato per il centrosinistra il voto, e la sconfitta, nelle elezioni regionali in Liguria?
C’è una premessa obbligata su cui ragionare seriamente. Sono andati a votare meno del 50% degli aventi diritto. C’è un problema ormai cronico (non solo in Italia) di una “democrazia del 50%”. Non sappiamo bene cosa alberghi nel 50% che resta a casa: se sono sconsolati, se pensano che il loro voto non abbia potere perché i loro problemi e interessi non hanno voce e rappresentanza. Un fenomeno complesso di secessione dal voto che meriterebbe uno studio a sé. Ma in questa conversazione, soffermiamoci su quel quasi 50% che ha votato e su ciò che ci dice l’esito del voto.
Cosa racconta quel voto?
Mettiamola così: se non c’è la stessa caparbia determinazione messa in campo dalla destra nel costruire e mantenere alleanze, l’opposizione non vince. Un tema sul quale soffermarsi riguarda quindi le ragioni delle debolezze interne a questa ipotetica coalizione. L’aspetto che analizzerei da subito è quello del “paradosso”…
Vale a dire?
Una leader, Elly Schlein, caparbiamente votata alla costruzione di alleanze, ingoiando rospi, non intervenendo a gamba tesa come hanno fatto i suoi partner, non facendo polemiche (e i giornalisti sono stati durissimi con lei, fin dalla sua elezione a segretaria, dipingendola addirittura come “estremista” e “massimalista”) per non rovinare una frittata che deve comunque farsi. Lei che è una sincera “unionista”, oggi si trova alla guida di un partito, il suo, il PD, che in Liguria s’impone come forza maggioritaria, anche a scapito del rifiuto di Schlein di ragionare e operare in termini maggioritaristi. Non voglio dire che questo dia ragione a Veltroni o a Letta o a quella parte che ha pensato di fare del PD l’equivalente del Partito Democratico americano, che è una federazione di gruppi politici e associazioni e che combatte unito contro un avversario altrettanto unito. Questo modello, adatto a un sistema bipolare e senza proporzionale, non si può applicare da noi, e il solo averlo pensato dimostra la debolezza originaria del PD. Schlein non ha questa idea secondo me sbagliata. Analizziamo ora la coalizione in fieri: in essa il PD sì è dimostrato il partner più credibile, ed è per questo diventato il più forte, quello che dà più sicurezza: quindi viene votato. Ma viene votato lui solo, senza i suoi alleati, che hanno perso fragorosamente. Il paradosso è che il PD è di gran lunga il primo partito in Liguria, il primissimo a Genova, eppure la destra ha vinto. Una situazione rispetto alla quale tutti coloro che stanno all’opposizione dovrebbero farsi degli esami: che responsabilità hanno e cosa intendono fare d’ora in poi.
Il che porta all’eterno dibattito sui “campi”, larghi, coesi, articolati, accidentati…
Per pietà, basta! C’è una slavina che spazza via i 5Stelle; una slavina che Grillo ha messo in moto e lo ha fatto alla vigilia delle elezioni, peraltro nella sua regione, la Liguria. Probabilmente voleva punire i suoi ma ha punito tutti, contribuendo così a far vincere la destra: muoia Sansone e tutti i filistei. Non intendo imbarcarmi in un processo alle intenzioni. Certo è che quel contenzioso l’avrebbe potuto aprire dopo, oppure diversi mesi fa, tanto il problema era già bello che squadernato. Qui siamo di fronte al paradosso di un signore che dice di possedere privatamente un movimento che compete alle elezioni e chiede voti agli elettori per governare il paese e contribuire a fare leggi per tutti. Una forma di patrimonialismo nemmeno tanto nascosta. La fondazione ufficiale del movimento non-partito 5S è avvenuta con l’iscrizione alla Camera di commercio di Milano, come fosse, appunto, una società privata. Questo fatto non è mai stato superato dalla direzione che fa capo a Giuseppe Conte. Senza giri di parole: questo partito-non partito, i 5Stelle, prima cambia di faccia e di pelle, cioè scompare come partito-movimento anti-partito e si costituisce partito, meglio è. E poi ci sarebbe da parlare di questi “centristi”…
Facciamolo, professoressa Urbinati.
Centristi minuscoli che centristi non sono neanche un po’. Radicali e a tratti estremisti nel modo di porsi, nell’interlocuzione con i potenziali alleati, cercando di imporre veti, impartendo lezioni politiche con saccenza, ma senza avere potere se non di polemica! Non mi sembra di vedere la postura di un partito “mediano” ovvero liberale, che abbia la capacità di moderare la lotta politica e temperare la polarizzazione. Invece, abbiamo un Renzi che ondeggia a destra e a sinistra a seconda di come a lui conviene, ma che infine non ha una forza capace di determinare la sorte di una elezione. Alita un soffio mentre dice di essere un tornado.
C’è una via di uscita o il centrosinistra ha imboccato un vicolo cieco che farà governare ancora per anni la destra?
Forse non c’è una sola via di uscita, ma ce ne sono alcune. Chi lo sa? Mettiamoci dal punto di vista dei 5Stelle. Se Conte vuole continuare a essere un leader di partito, deve costruirlo il partito e saperlo posizionare. Non può essere un partito-non partito che sui migranti sta a destra e sul reddito di cittadinanza a sinistra. Non può essere il partito “gentista” che sta di qua e di là e dichiara che non c’è né destra né sinistra. Questa epoca è chiusa. L’agone politico è polarizzato. E poi, faccia fare questo lavoro populista a Salvini, che mostra tra l’altro come il populismo sia molto più a suo agio a destra. A sinistra, o comunque nell’opposizione alla destra, non c’è spazio per il populismo. Lo hanno dimostrato Podemos e Mélenchon. Cominci populista e poi finisci o come un partito che come gli altri fai alleanze e mediazioni, oppure scompari. Se Conte non vuole scomparire, deve fondare il partito, ex novo, dargli una visione. Vuole lottare per gli ultimi? Bene. E allora che lo chiami il Partito degli ultimi. Vuole rappresentare una posizione fuori dal centrosinistra? Che si chiami il Partito dei senza voce. L’importante è che sia chiaro. Oggi non lo è.
E Elly Schlein?
Io l’ammiro come leader. L’ammiro perché ha dimostrato di essere tanto caparbia, insistente, generosa, quanto gentile, sì gentile. Il teatro politico italiano è rozzo, volgare, a Roma si direbbe coatto. Schlein cerca di tenere la politica nell’alveo in cui dovrebbe essere: la deliberazione sulle cose da fare, la ricerca di alleati, la ragionevolezza delle argomentazioni. Per fare quel salto in avanti che le consenta di essere rappresentativa di quella parte che sta dall’altra parte, dovrebbe esplicitamente dire che ci sono due Italie. Una, di destra, corrotta, illiberale e potenzialmente pericolosa per la democrazia costituzionale. E poi c’è l’altra Italia. L’Italia che lavora e vede decurtato il proprio potere sociale e politico se non è aggregata in corporazioni che godono i favori governativi; un’Italia che viene dalle tradizioni politiche che hanno fatto la lotta partigiana. Una visione di democrazia liberale, costituzionale, che rappresenta i valori fondamentali della giustizia sociale, che parla di distribuzione equa dei costi e dei benefici tra le parti sociali e delle eguali opportunità. Anche questo è il significato dell’Articolo 1 della Costituzione. Un’altra Italia, che viene dalla lotta di liberazione e di emancipazione. Su questo c’è bisogno della massima chiarezza. Schlein indica spesso i cinque punti della sua politica. Benissimo. Ma questi vanno inquadrati in una visione etico-politica. Non si può accettare una Italia così becera, che scrive e dice cose false, e che per giunta è anche molto corrotta e ricattabile, che rifiuta limiti e controlli, che attacca la divisione dei poteri perché vuole pieni poteri, che mette a rischio la vita dei giudici (scortati dalla polizia di Stato come si fa quando è la malavita organizzata a minacciarli!). Bisogna mettere uno stop a questo.
Due anni di governo di destra-centro. Qual è il suo bilancio?
Di quale centro si parla? Quello opportunista di Forza Italia? Che dice e non fa. Poi c’è una parte che è peggio dei Fratelli d’Italia: la Lega di Salvini è più fascista del partito della Meloni: xenofoba, dispregiatrice dei diversi, contro le minoranze, contro le donne, le libertà civili fondamentali. Una cosa orrenda che ci riporta alla diseguaglianza dell’antico regime. Il centro è assente a destra. E questa destra suscita molte preoccupazioni.
Perché, professoressa Urbinati?
I perché sono tanti. Solo per indicarne alcuni. Anzitutto perché hanno la sfacciata presunzione di dire che loro sono dalla parte giusta perché: non abbiamo mai governato. Balle. Loro hanno appoggiato (nemmeno tanto indirettamente) governi democristiani, come quello Tambroni che fu appoggiato dal MSI di Almirante, e non fu il solo se nel 1972 lo stesso Almirante si propose come alleato della DC, chiedendosi “con quali voti la DC avrebbe mantenuto le sue promesse” se non con quelli della destra. Nelle vicinanze del governo c’erano, come c’erano nelle strutture di polizia, nelle prefetture, eccome se c’erano! È una balla colossale quella che raccontano. E non è la sola. Un’altra, è che la cultura italiana è stata dominata della sinistra. Dove, in quali luoghi? È uscito un libro di Italo Bocchino di recente, che dice che l’Italia è stata sempre di destra. Ma se l’Italia è stata di destra dal 1945, che cavolo ci vengono a dire che ci hanno governato i comunisti e che la cultura era di sinistra! È una destra che può dire e fare quel che vuole assumendosi, senza pagarne dazio, le responsabilità del nulla e del falso. Di fronte a questo scempio, l’opposizione dovrebbe essere più aggressiva e riandare a quell’altra Italia. C’è un’altra Italia. Che lo dicano chiaro e forte. È l’Italia democratica che le destre hanno sempre maldigerito e che vogliono decostruire. È l’Italia di Carlo Rosselli e di Norberto Bobbio. L’Italia che ha generato un potere costituente democratico con le proprie forze, nella lotta per la libertà.
Se ci sono due Italie, perché chi dovrebbe rappresentarle si rifà comunque all’”Occidente” non solo come luogo politico ma come sistema di valori condivisi? L’Occidente viene tirato in ballo soprattutto quando si parla di guerra.
È un discorso complesso. L’Occidente non è uno e non è il diavolo. Ci sono vari “Occidenti” e fuori dall’Occidente non ci sono puri innocenti. La guerra in Medio Oriente avrà un impatto nelle elezioni presidenziali americane del prossimo 5 novembre. Ritengo che Netanyahu con la sua guerra abbia scientemente fatto campagna elettorale per Trump. La sua politica mette i Democratici alle corde. E allora non si accusino i Democratici di mandare le armi a Israele. Ragazzi miei, ma se gli Stati Uniti dichiarassero ufficialmente di non voler dare più armi, sarebbe come se dicessero a chi vuole eliminare Israele di andare avanti. Non possono farlo, non lo farebbero mai, giustamente. Questa richiesta è assurda. Quel che non è assurdo e che sarebbe necessario sentire da Kamala Harris una decisa richiesta di avere forze internazionali a Gaza, un corpo di pace che costruisca le condizioni per un dopo a partire da una tregua di lunga durata e la liberazione degli ostaggi israeliani. Un interim a Gaza che non dovrebbe essere sotto il dominio di Netanyahu. Per la sua timidezza su questi temi Harris perderà un po’ di voti degli arabo-americani, soprattutto in Michigan, uno degli Stati in bilico. Lei è per questo alla ricerca di compensare queste perdite con voti centristi, quelli che ancora sono rimasti in un quadro così polarizzato. Non so se la sua politica pagherà. È lecito nutrire dubbi. Perché non si tratta solo degli arabo-americani. L’altra sera ho avuto una lunga discussione via zoom con alcuni miei studenti, non arabi né ebrei di origine, e mi hanno confessato di non andare a votare; questa è la loro forma di dissenso dai Dem. Una forma suicida. Perché l’astensione dal voto dei pro-dem favorirà Trump.