La sicurezza è una questione seria. È elemento centrale per ogni collettività e costituisce una condizione fondamentale per la vita di una democrazia. Ma è proprio per questo motivo che i cittadini non dovrebbero essere presi in giro quando si parla di sicurezza. È invece proprio questa sua centralità che espone questo tema alla strumentalizzazione politica.
Se la sicurezza è da un lato un dato oggettivo, dall’altro è anche un sentimento collettivo e, come tale, una percezione facilmente condizionabile. È infatti sufficiente l’enfatizzazione di notizie di eventi criminali ad aumentare la percezione dell’insicurezza. Ma capita anche che, come accertato da recenti studi, lo stesso annuncio da parte di un governo della introduzione di norme contro la criminalità finisca con l’incrementare il senso di insicurezza dei cittadini, così instaurando pericolosi cortocircuiti. Quasi sempre le politiche giudiziarie sono condizionate da questi scenari e prediligono per questo motivo interventi di tipo populistico e simbolico, orientati ad alimentare il circuito vizioso della insicurezza, dell’immagine di città assediate dal crimine, per poi formulare la promessa di rassicuranti interventi securitari.
La sicurezza in senso oggettivo degrada così a sfondo irrilevante, sia perché bisognosa di risorse umane ed economiche per il suo mantenimento sia perché gli aumenti di pena, l’introduzione di nuove aggravanti e la creazione di nuovi reati, magari ispirati all’ultimo fatto di cronaca, sono invece a costo zero e al tempo stesso creano un notevole consenso politico. Se pure è vero che il nostro Paese ha conosciuto nel tempo tutta una serie di pacchetti sicurezza più o meno inseriti all’interno di questa logica perversa, il pacchetto ora all’esame del Senato si pone davvero contromano rispetto tutti i principi del buon senso e del diritto. I reati che turbano la nostra coscienza collettiva non sono, infatti, reati maturati in contesti di criminalità ma vicende che ci interrogano sui fenomeni del disagio sociale, familiare e minorile, sui loro rapporti con la crisi dell’educazione. Fenomeni che hanno evidentemente bisogno di cure diverse da quelle della repressione.
Complessivamente il nostro Paese conosce al contrario un periodo di riduzione del numero dei reati, specialmente dei reati più gravi ed anche i fenomeni illeciti di minor gravità hanno dimensioni ben più contenute che in altri paesi europei, sia nella provincia che nei contesti metropolitani. Eppure, mai un pacchetto sicurezza aveva introdotto nel suo insieme un numero così spropositato di aumenti di pena e di aggravanti, con norme così manifestamente in contrasto con tutti i principi costituzionali che dovrebbero governare il diritto penale: proporzionalità, eguaglianza, offensività e determinatezza. Mai un pacchetto sicurezza si era orientato in particolare a colpire, criminalizzandoli, proprio i fenomeni del disagio e della marginalità sociale insieme a quelli del dissenso politico. Le occupazioni abusive di immobili, gli imbrattamenti di edifici, le interruzioni del traffico, l’accattonaggio, assumono una improbabile centralità nel disegno repressivo, sebbene si tratti di forme di illecito che hanno bisogno piuttosto di risposte nel campo della buona ordinaria amministrazione, e di rimedi diversi dalla minaccia del carcere o dell’aumento dei poteri della polizia giudiziaria.
Mai era accaduto in passato che condotte ritenute tipicamente inoffensive come la resistenza passiva o la disobbedienza venissero criminalizzate, equiparandole ad ogni altra condotta di violenza o di minaccia, tanto da integrare il reato di rivolta punito con pene altissime, sia nelle carceri che nei luoghi di detenzione amministrativa. Un’attenzione perversa quella così dimostrata per i luoghi di privazione della libertà, che versano in una condizione disperata a causa della piaga del sovraffollamento, nei quali spesso l’assistenza psichiatrica e sanitaria e il trattamento stesso sono un sogno, e che avrebbero dunque bisogno di ben altri interventi d’urgenza. Mai si era escogitata una aggravante così irragionevole come quella “ferroviaria” che aumenta le pene, per qualsiasi reato, se commesso all’interno o nelle adiacenze di quelle strutture.
Resta un mistero la regola criminologica per cui, ad esempio, una omissione di atti d’ufficio sia più grave se commessa sotto una pensilina ferroviaria, piuttosto che in un ministero. Mai si erano consentiti daspo urbani così estesi e limitativi di libertà fondamentali fondati su dati così incerti o misure vessatorie come quelle dei migranti privi di permesso di soggiorno, privati dell’elementare diritto di comunicazione. Mai si erano attribuiti aggravamenti di pena così sproporzionati per i reati commessi ai danni della polizia giudiziaria, ritenuti inutili dagli stessi sindacati di polizia, consapevoli che non sono gli aumenti di pena a fungere da deterrente. Mai si era pensato di smantellare quel sacrosanto divieto, previsto dallo stesso codice Rocco, di incarcerare donne incinte e madri di prole in tenera età. Mai, insomma, si era inciso così pesantemente sui rapporti fra libertà e autorità, fra Stato e cittadino, facendo assumere al diritto penale i tratti di un “diritto penale del nemico”, profondamente illiberale, intimidatorio e autoritario, che ha come obbiettivo il “tipo d’autore”: occupante, manifestante, imbrattatore, disubbidiente, irregolare…
Ma ciò che più è grave è che si tratta di una “truffa delle etichette”, si tratta cioè di norme del tutto irrazionali, che mentre devastano gli equilibri già precari del nostro diritto penale, si dimostrano sostanzialmente inutili in quanto incapaci di rispondere alle vere esigenze del Paese, di incidere sulle vere aspettative di sicurezza dei cittadini, fatte di prevenzione, di presenza e di presidio nelle strade, di carceri umane che garantiscono la risocializzazione dei condannati, di rimozione dei motivi del disagio sociale.
*Presidente dell’Unione camere penali italiane