Nel romanzo Grand Hotel Europa di Hia Leonard Pfeijffer il facchino Abdul imbastisce una storia sulla propria fuga dall’Africa verso l’Italia che insospettisce la polizia perché troppo simile al testo dell’Eneide. È vero, lui risponde, ho letto quel libro sei volte, e vi ho trovato le parole che altrimenti non avrei avuto per descrivere il mio viaggio. Come Abdul, vorrei un’opera letteraria con la quale rivestire adeguatamente ciò che ho messo insieme sul naufragio di Roccella Ionica, ma non ho ancora letto abbastanza per incontrarla.
I migranti della rotta turca non arrivano, come Abdul, dalle guerre e dalle carestie africane, sono soprattutto perseguitati per motivi razziali, politici o religiosi, spesso benestanti e con esperienze di studio e professionali. Quelli naufragati al largo di Roccella erano salpati da Bodrum, in Turchia, su una barca a vela di cui non si sa il nome. C’erano fra loro quattro famiglie curde, due della provincia di Erbil, due del Sulaimani e, delle prime (undici persone, fra cui alcuni bambini) sono riuscito a rintracciare un rivolo di storia. Avevano lasciato casa cinque mesi prima del naufragio, per raggiungere Istanbul. Dopo qualche tempo, forse delusi, avevano deciso di ritornare nel Kurdistan, per poi di nuovo cambiare idea, e pensare all’Europa. Qualcuno aveva detto loro che sarebbe stato possibile raggiungerla in aereo, ma poi la prospettiva si era rivelata impraticabile, perché non è facile superare illegalmente i varchi aeroportuali. Si era prospettato, poi, un viaggio in un camion, e infine era giunta la proposta di una barca per l’Italia. Una barca buona, con viveri e coperte a bordo, senza bisogno di portare nulla con sé. Le due famiglie accettano, pagano, sono pronte per partire.
La barca a vela – che potrebbe portare 20 persone, ma ne ha a bordo 76 – lascia il porto turco il 10 giugno, una domenica; prima della partenza, il gruppo aveva cercato il trafficante per chiedere ancora qualche dettaglio, ottenere rassicurazioni, ma il cellulare aveva squillato a vuoto. Bakhtyar Ismail, il parente di una delle famiglie scomparse in mare, ha raccontato al quotidiano Rudaw che due dei trafficanti provenivano dal Kurdistan e un terzo era iraniano (qualche giorno dopo il naufragio, sui giornali curdi è apparsa la notizia dell’arresto di quattro sospetti trafficanti coinvolti in quella spedizione). Ho rintracciato sulle pagine Facebook di utenti curdi alcuni filmati della traversata: il mare è buono; sul sottofondo di musica curda, giovani in primo piano salutano alzando il pollice e l’obiettivo fuggevolmente inquadra anche donne e uomini seduti o stesi sul ponte, con i bambini accanto. Leggo i commenti.
Dal Kurdistan, i parenti ed amici li incoraggiano, invocano Dio e le “acque giuste” del Mediterraneo: manifestazioni apparentemente assai lontane da noi ma che stanno lì, per chi voglia vederle e capirle. Deve essere stato lo scafista a registrare i filmati, visto che i cellulari erano stati tutti sequestrati alla partenza, ma quell’allegria non dev’essere durata a lungo. Ismail accusa i trafficanti di avere ingannato i migranti, e Roya Mohedini, una diciannovenne sopravvissuta al naufragio, afferma: “Ci hanno chiesto di non portare con noi alcun cibo perché tutto era fornito sulla barca. Abbiamo condiviso tutto quello che avevamo, a bordo non c’era niente – niente acqua, niente cibo, niente affatto”. Mercoledì giunge alle famiglie la telefonata che registra l’ultima posizione della barca, non ne seguiranno altre: “Dicevano che erano in pericolo, ma che sarebbero sicuramente arrivati – ha raccontato Ismail – dicevano ripetutamente che tutto andava bene e che sarebbero arrivati in Italia sani e salvi”. Lo scoppio a bordo deve essere avvenuto subito dopo. Secondo Mohedini, “mentre la barca si avvicinava all’Italia, il motore è esploso e si è aperto un buco”. Secondo Ismail, l’esplosione è stata innescata “dopo che il capitano ha cercato di rimuovere una scatola di provviste”. Uno dei passeggeri rimane ustionato, “in condizioni terribili”, la barca comincia ad affondare, alla fine si capovolge e “tutti i 76 migranti a bordo sono caduti in mare”.
Mohedini racconta a Rudaw: “Due o tre barche sono passate molto vicino a noi. Abbiamo gridato e urlato aiuto, ma ci hanno ignorato e sono andati via”. I 76 naufraghi rimangono in acqua per quattro giorni, fino all’arrivo di un veliero francese. Alcuni erano già morti di sete, molti altri ormai avevano, a quel punto, perduto le forze. Non ho trovato una Eneide giusta per questa ricostruzione, ma ho con me un brano del libro Naufragio di Vincent Delecroix, la storia di un mancato soccorso tra la Francia e la Gran Bretagna che nel 2021 costò la morte di 27 persone dopo una lunga, inutile attesa. “Adesso galleggiavano, quasi senza muoversi, in mezzo al nulla. Le esclamazioni, le grida, le invocazioni, le parole stesse, erano cessate una dopo l’altra, non si sentiva più altro che il movimento del mare… ciascuno aveva trovato a poco a poco sui flutti un equilibrio precario, che cercava di mantenere economizzando i movimenti… Le loro labbra gonfie si muovevano e balbettavano, il torace schiacciato in una morsa che non avvertivano neppure più, la gola gonfia e riarsa, la mandibola quasi bloccata. I loro volti assumevano un colore blu e gessoso allo stesso tempo. Con le orecchie che ronzavano, erano vinti da un continuo torpore, un’irresistibile letargia che confondevano con la calma e la continuità sotterranea e indistruttibile della vita vegetativa. In realtà, stavano morendo”.
In Italia la prima notizia sulla barca in pericolo, trasmessa da Alarm Phone, arriva il 16 giugno all’Mrcc, il Centro italiano che coordina i soccorsi in mare, che la rilancia (caso Sar n. 967) alle navi in transito: riferisce di uno scafo con 67 persone indicandone la posizione (che risale però, come sappiamo, all’ultima telefonata di tre giorni prima) in un punto a circa 90 miglia da Roccella Ionica, in acque Sar italiane. Nessuna motovedetta parte il giorno 16, nessun aereo. Il ministro Piantedosi ha affermato in Parlamento che furono coinvolti gli aerei di Frontex, e la ricostruzione fornita dalla Guardia costiera a Report è dello stesso tenore: “Il V MRSC di Reggio Calabria ha provveduto ad accertare che il tratto di mare interessato fosse stato sorvolato, nei tre giorni precedenti alla segnalazione, da assetti aerei dell’Agenzia Frontex senza alcun avvistamento”. Affermazioni smentite dalla stessa Agenzia che, interrogata da Report sulle ricerche eseguite in quei giorni, ha risposto: “Nessun aereo Frontex ha volato nella zona il giorno del naufragio”.
Nella notte tra il 16 e il 17 il veliero francese Dariakaha 3 si imbatte in una barca semi-affondata a circa 130 miglia da Roccella, sempre in acque Sar italiane (il grafico diffuso da Sergio Scandurra di Radio Radicale documenta l’intero scenario). Non può trattarsi che dello scafo segnalato tre giorni prima: dal 13 sono trascorse molte ore, e il relitto, con le ultime dodici persone rimaste aggrappate, viene rinvenuto a 62 miglia Est/NordEst dal punto contenuto in quella segnalazione. A portarlo fin lì sono state le onde e il vento che, nello Ionio settentrionale, in quei giorni ha spirato dai quadranti di Ovest (bollettini Meteomar dell’Aeronautica Militare dei giorni dal 13 al 16 giugno). Vento di SudOvest, dice il velista francese che ha eseguito il soccorso; SudOvest, riporta l’immagine del relitto tratta dall’aereo Manta della Guardia Costiera alle 8,12 del giorno 17. È molto attendibile, dunque, che il relitto, nei giorni dal 13 al 17 giugno, abbia percorso verso Est, alla deriva, 62 miglia (una media di circa mezzo miglio all’ora), ma non lo è per la Guardia costiera che, interrogata da Report, risponde in modo perentorio: “I due eventi (…) non risultano correlabili in quanto il punto in cui è stata intercettata l’unità naufragata non è compatibile (con quello della precedente segnalazione, ndr) sia per la distanza (circa 65 miglia), che per l’andamento delle correnti marine in zona, oltre che per lo stato del mare registrato nelle giornate dal 13 al 16 giugno”.
In realtà, non soltanto le ricostruzioni grafiche e i bollettini meteorologici confermano che si tratti della stessa barca: decisiva è anche la testimonianza del giornalista Ranj Pzhdari che, ricevuto l’allarme dai parenti senza notizie da tre giorni, l’aveva girata ad Alarm Phone. Lo stesso Pzhdari è poi venuto in Italia a salutare i superstiti della barca che, dopo la comunicazione del 13, non aveva dato più notizie. La strategia difensiva adottata dal governo ricalca quella di Cutro e del più recente naufragio a sud di Lampedusa. Di fronte alla prima notizia di pericolo le autorità non intraprendono azioni dirette (perché la barca è lontana, o perché ritengono prevalenti le azioni di polizia sul soccorso); adottano qualche svogliata comunicazione e, dopo un po’, chiudono il caso senza alcuna formalità. Se poi la barca va a fondo, risolvono l’imbarazzo argomentando che l’evento non fosse prevedibile o che non si sia trattato della stessa imbarcazione. Infine si spendono per cercare i morti, che anche loro – come i giornalisti e come i magistrati – cominciano a dar fastidio.
Il ministro dell’Interno ha dichiarato in Parlamento che il naufragio di Roccella è accaduto fuori dalle acque Sar italiane (non è vero) e che l’Italia si è prodigata nella ricerca (è vero, ma non dei naufraghi, soltanto dei dispersi). Si presume che 22 o 23 delle 65 persone scomparse fossero bambini. Soltanto 11 se ne sono salvate: trasbordate dal veliero francese al mercantile Kate C, una di loro è morta durante il trasferimento a Roccella. Gli infermi sono stati dislocati nei più diversi ospedali. Tra di loro c’è anche Nalina, irachena di 10 anni, di cui ho conservato una foto: è ritratta di spalle in un lettino dell’ospedale di Locri. Dietro di lei, un peluche aspetta che la bambina finalmente si accorga della sua presenza. Gli annegati – sbarcati nottetempo nei più vari approdi, e neppure salutati da un funerale comune – staranno ancora chiedendosi come mai le autorità italiane si siano così tanto vergognate di loro.