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“L’ora del destino” di Antonio Scurati, Mussolini un uomo ambizioso pronto a schiacciare chi dissente

Photo credits: Ermes Beltrami/Imagoeconomica

Photo credits: Ermes Beltrami/Imagoeconomica

Su Mussolini la bibliografia è naturalmente sterminata. Ma leggendo L’ora del destino (Bompiani), quarta puntata dell’affresco sul fascismo di Antonio Scurati, ho capito che Mussolini era soprattutto costitutivamente incapace di dire la verità: agli altri (uomini politici, militari, amanti, familiari) e a se stesso. Refrattario alla verità. Salvo in un momento estremo, nella sua “solitudine triste”, quando sta uscendo di scena, come vedremo tra un po’.

In questo volume confermando le proprie strategie narrative e retoriche, Scurati ha raggiunto un compiuto equilibrio tra gusto del racconto e documentazione storica, tra qualità drammaturgica e adesione ai fatti. L’intera fiction si appoggia scrupolosamente ai materiali di sostegno nelle sezioni finali dei capitoli: lettere, discorsi, verbali, diari, articoli, intercettazioni telefoniche. Qualcuno gli ha rivolto impropriamente l’accusa di eccesso di enfasi. Ma Scurati non è uno storico. La letteratura esagera sempre la realtà (lo faceva perfino Primo Levi, rivendicandolo), per poterne afferrare il nucleo nascosto, il noumeno segreto oltre la mera, opaca apparenza. Prendiamo il ritratto di Italo Balbo in apertura, un pezzo di bravura quasi virtuosistico. Balbo nei cieli di Tobruk sull’aereo che verrà colpito tra poco dal fuoco amico, puntando insensatamente – per una sfida personale – il muso del velivolo sull’aeroporto appena bombardato dagli inglesi, con la mano stretta sulla cloche ritorna alla sua intrepida giovinezza, “un manganello in pugno e una testa da spaccare”, “sulle labbra il perfido sorriso di disprezzo dell’aviatore per quegli omuncoli pedestri”.

Nessuno può sapere se Balbo, “ebbro di cielo” davvero in quel momento sorridesse, però quel sorriso sprezzante, che precede la morte, la scoperta che “tutto è un immenso equivoco in questa vita accecata da un sole al tramonto” è un tassello prezioso del ritratto. Ci svela un carattere e un destino. Lo scrittore non si limita a restituirci la nuda realtà, ma vuole anche darci immaginativamente l’emozione della realtà, attraverso l’empatia, la capacità di immedesimazione. Impressionante la gelida indifferenza di Mussolini alla morte dello squadrista dell’aria: era in visita in una località montana, i testimoni ce lo raccontano “ciarliero, sereno, compreso di sé”. Certo, lo stile di Scurati appare esuberante, privo di misura. Sempre nel primo capitolo c’è una pagina con ben tre triadi aggettivali: “Balbo è “frenetico, furibondo, inconsolabile”, mentre sorvola le masse dei suoi soldati “impotenti, smarrite, disarmate”, restando lui “ostinato, incosciente, accecato”. Però questa esuberanza si attaglia perfettamente a una materia – storica, antropologica – anch’essa esuberante e smisurata.

Ma ovviamente il vero protagonista è Lui, il Duce, un personaggio descritto in tutte le sue complicate sfaccettature, in tutte le sue italianissime contraddizioni e oscillazioni caratteriali. Su questo aspetto vorrei fare un breve inciso. Dissento dalla celebre lettura gobettiana del fascismo come autobiografia della nazione. Credo invece che la veridica autobiografia della nazione sia stata la Democrazia Cristiana. Il Duce, come per ragioni opposte e con metodi sensibilmente diversi lo stesso Gobetti, intendeva rieducare gli italiani, e anzi raddrizzarli. Quando scoprì che era impossibile cominciò a odiarli: qui si rievoca la sua virulenta invettiva contro gli italiani “bracaioli”. Mentre la Dc non ha mai preteso di cambiare gli italiani: li accettava per quello che erano, e ha provato a governarli “omeopaticamente”, somigliandogli, dunque attraverso il compromesso, la flessibilità e l’arte del non governo. Tuttavia, se il fascismo non è stato l’autobiografia degli italiani, Mussolini è stato invece un autoritratto fedelissimo dei nostri connazionali, un perfetto arcitaliano (nella versione di Uomo di Potere): cialtrone con tratti di genialità, sbruffone e illusionista, suadente e feroce, impulsivo e calcolatore, brutale e “tattico”, seduttivo e prepotente.

Una figura immortalata da Thomas Mann in Mario e il mago. Di qui anche la contiguità fra tragedia e farsa, fra apocalisse e messinscena dell’apocalisse, fra una immensa sofferenza e la recita irresponsabile dell’euforia. Tutto questo Scurati lo racconta benissimo, e con un’enfasi necessaria. Durante la seduta del Gran Consiglio del 25 luglio, quando il Duce sarà destituito senza quasi opporre resistenza, troverà forse l’unico momento di grandezza, degno dell’Adelchi manzoniano, avvicinandosi al busto del figlio Bruno, davanti la sua scrivania: “Il padre fissa a lungo gli occhi spenti, fusi nel bronzo, del figlio morto. Poi allunga la mano smagrita e accarezza delicatamente sulla guancia l’oggetto inanimato, freddo, metallico”. Oltre il mattatoio della Storia e i propri deliri di onnipotenza ritrova la verità degli affetti intimi.

Nelle oltre 600 pagine dell’Ora del destino c’è un brulichio di eventi, personaggi (memorabile il ritratto di Edda, prima crocerossina d’Italia), colpi di scena – oltre che spunti di riflessione – di cui è impossibile rendere conto: il periodo va dal 1940 all’estate del 1943. Il libro si raccomanda alla scuola, a quei docenti che vorranno usarlo, accanto al manuale, per mettersi da una prospettiva appena più straniata (quella della letteratura), per scrutare il lato nascosto della realtà. Ma, e non vorrei sembrare irriverente, si raccomanda anche alla nostra attuale classe dirigente. In che senso? I nostri fervidi patrioti impegnati a difendere i confini della nazione, i nostri fratelli d’Italia gramscianamente alla ricerca di egemonia, dovrebbero onestamente ripartire da qui, dai caratteri di quella disfatta, da quella allucinata irrealtà in cui precipita il regime, dalla irresponsabile apatia in cui sprofonda Mussolini nei colloqui con un Hitler spettrale (dopo essersi illuso di “giocarlo”).

Ripartire da qui, da questa “follia” in parte oscura che attraversa il ventennio fascista, per ricostruire un intero sistema di valori oggi esausto, per comporre un nuovo dizionario di voci “di destra” – onore, patria, fedeltà, dignità, rigore – che ritrovi forza in quanto capace di andare al termine della notte, e di raccogliere la sfida della modernità. Anche ritrovando in questo dizionario la radicalità di sguardo che seppero avere molti intellettuali della sua parte. Ma dubitiamo che una classe dirigente che accarezza commossa il busto di Mussolini o che ci offre sincretismi improbabili formulati in un gergo quasi petroliniano, possa esserne all’altezza. Prima gli italiani? Ecco, ai nostri attuali governanti – orgogliosi delle radici cristiane del nostro paese – farei ricopiare cento volte sul loro quadernino il discorso del Negus, di Hailé Selassié, che il giorno della liberazione dell’Etiopia il 5 maggio 1941, nonostante gli eccidi del criminale Graziani ha saputo usare “memorabili parole di civiltà per santificare la festa” e ha invitato al perdono: “non ripagate dunque il male con il male”.