Dopo quasi due anni dalla entrata in vigore dal decreto Piantedosi che spazza via le navi della flotta civile dal Mar mediterraneo e lascia senza testimoni le scorribande dei miliziani della Guardia costiera libica (mai fanno soccorsi, ma soltanto catture di naufraghi) il tribunale di Brindisi il 10 ottobre ha rimesso alla Corte costituzionale la questione della illegittimità costituzionale della legge che porta il nome del ministro dell’Interno. Su quelle norme che fermano nei porti le navi di soccorso delle ong impegnate nei salvataggi, ricattandole di fatto con la minaccia della confisca dell’imbarcazione, dovrà esprimersi la Consulta. Il rinvio alla Corte è avvenuto nel corso di uno dei giudizi avviati dalla ong Sos Mediterranée contro un fermo della nave Ocean Viking. L’avvocata Francesca Cancellaro è una dei legali che hanno firmato quel ricorso.
Quali sono le norme del decreto Piantedosi sulle quali è stata sollevata la questione di legittimità?
La norma che sanziona con il fermo amministrativo la nave che non ubbidisce ai comandi dell’autorità competente per il soccorso, anche se straniera. La questione che è stata sollevata dal tribunale di Brindisi riguarda l’articolo 1, comma 2 sexies del D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito in legge 18 dicembre 2020, n. 173, come modificato dal D.L. 2 gennaio 2023, n. 1, convertito con modifiche dalla l. 24 febbraio 2023, n. 15, in riferimento agli articoli 3, 11, 25, 27 e 117 della Costituzione, nella parte in cui, dopo aver inflitto la sanzione principale del pagamento di una somma da 2.000 euro a 10.000 euro nei confronti di chi non si “uniforma alle indicazioni” fornite dalla “competente autorità nazionale per la ricerca e il soccorso in mare nonché dalla struttura nazionale preposta al coordinamento delle attività di polizia di frontiera e di contrasto dell’immigrazione clandestina o non si uniforma alle loro indicazioni”, prevede che “alla contestazione della violazione consegue l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo per venti giorni della nave utilizzata per commettere la violazione.
Quella legge è spesso stata definita pericolosamente ambigua da chi fa operazioni di salvataggio in mare, ci spiega in cosa si traduce in concreto quell’ambiguità?
La legge punisce l’inottemperanza da parte del comandante alle indicazioni fornite dal competente centro per il soccorso marittimo nella cui area di responsabilità si è svolta l’operazione di soccorso. Ciò si traduce nel rinvio in bianco all’ordine impartito da tale autorità straniera, anche quando questo ordine che non è neppure formalizzato in un atto amministrativo (come nel caso di specie, l’amministrazione si basa su una comunicazione via e-mail della cosiddetta Guardia costiera libica). Si tratta di una disposizione evidentemente ambigua perché, come si legge nell’ordinanza, la descrizione della condotta sanzionata è affidata al rinvio in bianco alle determinazioni di altra autorità, senza alcuna indicazione dei criteri di offensività e punibilità rilevanti ed al fine perseguito da quelle prescrizioni poi disattese. In altre parole: sono le autorità libiche che di volta in volta vanno a determinare il contenuto della violazione del Decreto Piantedosi, questo contenuto non è previsto con precisione dalla legge.
È possibile che l’aver sollevato la questione di legittimità delle norme del decreto Piantedosi davanti alla Consulta apra le porte formali alla messa in discussione della revoca della zona Sar alla Tunisia e della zona Sar alla Libia?
Me lo auguro. Ogni paese stabilisce la propria “zona Sar” (“Search and Rescue”), nella cui area di competenza è tenuto a prestare soccorso. L’istituzione di una zona Sar impone allo Stato precisi doveri, non è funzionale all’attribuzione di diritti e potestà in capo al Paese. La Consulta sarà anche chiamata a valutare il contrasto del decreto Piantedosi con gli articoli 11 e 117 della Costituzione – sono gli articoli che vincolano l’Italia agli obblighi internazionali assunti – nella misura in cui, riconoscendo la valida esistenza di una “zona Sar” libica e la legittimità degli ordini impartiti da quell’autorità nelle operazioni di soccorso, contrasta con obblighi imposti all’Italia dal diritto internazionale consuetudinario e convenzionale. Il presupposto è che lo Stato libico costituisca un “porto sicuro” per i naufraghi e i sopravvissuti soccorsi. Come riconosciuto dalla giurisprudenza nazionale (sentenza della Cassazione n. 4557/2024 nel caso Asso 28), la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra e sono accertate dagli organismi internazionali le condizioni inumane e degradanti presenti nei suoi centri di detenzione per i migranti, al punto che ha condannato in via definitiva del comandante di un’imbarcazione battente bandiera italiana che aveva riportato i naufraghi in quel Paese.
Quali potrebbero essere i passi formali per togliere alla Libia e alla Tunisia le rispettive zone Sar? Le può revocare soltanto l’Oim? Quali sono gli atti formali con cui si può avviare il procedimento e chi può farlo?
Secondo la convenzione Sar del 1979, gli Stati possono istituire le proprie zone di ricerca e salvataggio in mare, a patto che siano rispettati certi obblighi: «stabilire centri di coordinamento dei soccorsi (Maritime rescue coordination center, Mrcc)» che siano «operativi 24 ore su 24 e con personale costantemente addestrato con una conoscenza a scopi lavorativi della lingua inglese». Le persone salvate in quelle zone devono essere riportate in un porto sicuro, secondo le regole della convenzione. Certamente la Libia e la Tunisia non soddisfano questi requisiti. L’Oim dovrebbe avere un ruolo più definito nel verificare le informazioni che pubblica legate alle zone di ricerca e salvataggio e gli Stati potrebbero e dovrebbero porre il tema in sede internazionale, così come hanno tentato di fare negli ultimi anni associazioni non governative e società civile. Più in generale, l’Oim dovrebbe giocare un ruolo nel contrasto a fenomeni di abuso da parte degli Stati.
Quali norme vengono violate dalla deportazione di migranti in Albania?
Credo che anche su questo versante sia necessario ragionare sui molteplici profili di illegittimità costituzionale. Si tratta di rinunciare all’effettività di tutte le garanzie sostanziali e processuali che il sistema europeo garantisce. L’idea che queste pratiche di esternalizzazione possano diventare un primo esperimento verso una strutturale gestione del fenomeno migratorio non può passare a livello politico ma ancora prima a livello legale.