I flop della premier
Governo dei flop ma media e finanza fanno scudo a Meloni, la timoniera dei fiaschi celebrata come fuoriclasse
Da Otto e mezzo “Frattocchie dei patrioti”, a Mieli e Padellaro, a Confindustria. E appena il sindacato reclama incrementi in busta paga, e non semplici tagli delle aliquote a carico della collettività, ecco la bacchettata di Repubblica: basta con le inutili ostilità
Politica - di Michele Prospero
Lo sketch dell’ambulante, che dà i numeri sul bilancio statale agitando la calcolatrice per ostentare sicurezza, si è rivelato un fiasco per nulla divertente. “Ho fatto un casino”, ha ammesso la stessa Meloni, che con il primato della politica pensava di poter scalfire finanche il sacro legame tra il minuendo e il sottraendo. Le cifre riluttanti non hanno obbedito alla sua voce squillante mentre ordinava alla macchina di compiere una operazione irrazionale. La premier, maltrattando l’aritmetica, lascia precipitare nel grottesco anche il governo, nonostante il vaniloquio di avere incamerato i migliori risultati “dai tempi di Garibaldi”.
A due anni dalla marcetta che da Colle Oppio l’ha condotta a Piazza Colonna, non è affatto lievitata la statura politica di Giorgia Meloni. Una diffusa narrazione edificante la celebra come una fuoriclasse che solamente il perfido destino costringe a convivere con una sciatta classe dirigente. Oltre alle reti amicali e coniugali, la Fiamma, che famelica la segue nelle stanze romane con il mandato di acciuffare l’egemonia culturale, in effetti recluta l’élite soprattutto attraverso le “Frattocchie dei patrioti”, ovvero il programma Otto e mezzo, che ha imposto nello spazio pubblico maître à penser e grand commis del calibro di Sechi, Giuli, Bocchino, Specchia. Che il personale politico raccattato sia di poco pregio, e non garantisca neppure l’amministrazione corrente degli enti o l’imbastitura di una qualche opinione rispettabile, non significa che si possa abbuonare la responsabilità fondamentale che ricade sulla leadership.
E’ proprio l’apice della nomenclatura a non possedere gli strumenti minimali per esperire degnamente la direzione statale. La leggenda raccontata in maniera compulsiva da Paolo Mieli e Antonio Padellaro, secondo cui bisogna appoggiare la “madre e cristiana” in quanto è lei il più saldo argine alla deriva verso l’estremismo, altera il principio di realtà. La destra, con una sfilza di reduci in carriera, è animata solo dall’ambizione di completare la conquista militare delle postazioni di comando per strapazzare gli equilibri dei poteri repubblicani. I limiti della concreta capacità di governo appaiono eclatanti davanti al flop degli sforzi, invero nemmeno abbozzati, per il recupero di competitività dell’apparato economico poiché, in luogo della innovazione sia pure di marca conservatrice, nelle singole misure i nero-verdi perseguono la mancia architettata al fine unico di accontentare le variegate corporazioni a rimorchio. Non la crescita, indispensabile per sopravvivere dopo il trentennio di stagnazione, ma l’impennata delle fattispecie di reato viene inseguita da Palazzo Chigi come la tattica più redditizia per il reperimento del consenso.
Il carcere promesso con la escogitazione di fantasiosi crimini quotidiani nasconde il vuoto nello svolgimento della funzione pubblica in un sistema-Paese scivolato via via nella bassa classifica del nuovo capitalismo. La marginalizzazione nell’economia-mondo e la vistosa eclissi della grande impresa non allarmano l’inconcludente timoniera perché comunque i piccoli guadagni non latitano, e con la ossessiva caccia al migrante si aprono sentieri di fuga dalle taroccate ricette della Melonomics. La propaganda delle percentuali impetuose che farebbero dell’Italietta la locomotiva dell’Occidente, la favola dei record occupazionali raggiunti non resistono agli impietosi indici che mostrano il freno del Pil e le macroscopiche condizioni di sofferenza in diverse fette della società. E così, a causa di questa frana nelle politiche, con l’overdose securitaria e le esercitazioni navali per le deportazioni in Albania, l’esecutivo riscalda il risentimento dei ceti popolari cui al contempo nega i cruciali diritti di cittadinanza (sanità, scuola, pensioni, trasporti).
Colpisce la copertura assicurata purchessia dai poteri forti all’attuale maggioranza, custode della rapacità di una struttura micro-corporativa che fa del sommerso la variabile indipendente. Anche l’Assemblea di Confindustria è stata sedotta dalla destra radicale che prenota una battaglia ideologica campale contro il Green Deal. Il cosiddetto gotha dell’economia, della finanza e dei media già aveva accolto in modo trionfale la solita (cioè inconsistente) esibizione di Meloni a Cernobbio. A scuoterlo non bastano neanche il collasso degli investimenti, lo spreco delle scarse risorse nel rientro dei capitali all’estero e in continue sanatorie, il ritiro dello Stato dal welfare con le aziende che lucrano sulle case di cura, il congelamento degli stipendi che arrancano dietro una inflazione che alleggerisce il carrello della spesa.
Con la politica economica dei concordati preventivi e dei condoni fiscali a raffica, solleticando gli animal spirits davvero incontrollabili, il governo unisce tutte le categorie professionali in opposizione agli interessi del lavoro dipendente e della crescita. Per mantenere il sostegno particolaristico, rinuncia a gestire le dinamiche industriali in conformità a un piano di più lungo periodo. Incassare qualcosa dal turismo povero, favorire gli affitti brevi, blandire i balneari rappresentano rimedi che non stimolano lo sviluppo, il quale esigerebbe piuttosto lo smantellamento della coalizione micro-padronale che invoca ricavi facili nel declino del meccanismo produttivo. Al sindacato, che reclama incrementi in busta paga – e non semplici tagli delle aliquote a carico della collettività – e proclama lo sciopero generale in replica alla manovra, Repubblica intima di far cessare le “inutili” ostilità.
Finché per sinistra si intende un chiacchiericcio sulla questione morale e una certa attenzione alle sole libertà civili, tutto fila liscio. Appena però in nome del salario si intaccano i colossali interessi costituiti attorno al profitto, ecco che la stampa “amica” appicca il fuoco di sbarramento. Come diceva Marx, “oggi perfino l’ateismo è culpa levis, in confronto alla critica dei rapporti tradizionali di proprietà”. Il radicalismo sui valori è percepito dalle sentinelle del mercato tutt’al più come un peccato emendabile, imperdonabile rimane invece il sospetto che accompagna ogni pratica di contestazione ancora connessa alla messa in discussione delle regole auree dell’accumulazione (già Machiavelli rammentava gli scontri aspri che scaturirono dall’ipotesi di creare un catasto per la registrazione degli averi).
Dinanzi ai reiterati fallimenti di governo, il vincolo esterno ciclicamente si ridesta e le istituzioni sono indotte ad apparecchiare il tavolo per il podestà forestiero. Più che la falsa attesa rigeneratrice di una ennesima sospensione tecnica, la sinistra dovrebbe costruire un’alternativa politica e sociale. Sui nodi strategici della transizione ecologica e digitale, che il padronato filogovernativo al pari di Meloni considera il frutto di un “approccio autodistruttivo”, è possibile prospettare imponenti interventi pubblici per rilanciare gli investimenti e riprendersi dai guasti dell’infinito ristagno. Per una svolta di sistema occorre infatti la politica, non una “casinista” a digiuno di economia che straparla di faccende sconosciute e brandisce la calcolatrice come in una vecchia scena di Carlo Verdone.