L’orizzonte di Dario è più ampio del mio. Lui vive con la madre ad Agrigento, nel punto più alto della Rupe Atenea che domina la valle dei Templi e il mare. Da quel terrazzo privilegiato, mio figlio vede arrivare da lontano le navi e le segue fino al loro lento ingresso a Porto Empedocle dove – gli dicevo quando era più piccolo, indicando da lassù il mio paese – il sole al tramonto si colora e va a dormire.
Arrivano poche piccole navi, per lo più da crociera, talvolta molto belle. Hanno solcato il mare africano, assorto testimone di infiniti passaggi, di tante morti e della disumanità che oggi il potere consuma, oltre l’orizzonte di Dario. Non gli uomini – li conosco, i miei marinai – ma chi li governa. Un giorno sì e l’altro no mio figlio trascorre con me a Porto Empedocle, dove ogni tanto mi chiede di andare vedere la nave osservata da lontano, ora sonnacchiosa in banchina. Il percorso in macchina verso Agrigento, a fine giornata, sembra avere recentemente cambiato forma. Trascorrevamo quel tempo proponendo musica, lui la sua e io la mia, con l’immancabile, ansiosa, richiesta di conferma: ti piace? Ultimamente prevalgono invece i silenzi, e le sue domande.
Ieri sera era preoccupato perché una donna in piazza, infastidita dai suoi palleggi (sembrerà strano, ma a Porto Empedocle non esistono spazi in cui i bambini possano giocare liberamente) gli aveva esclamato: «Vai all’inferno!». Dario era rimasto impietrito, avendo considerato la frase non un suggerimento, ma una predizione. Mi aveva subito chiesto: «E ora?» e lo avevo rassicurato, ma in macchina ha posto di nuovo la questione: «Sei sicuro che non mi succeda niente?». È struggente fare i conti con l’innocenza dei bambini: preziosa e precaria com’è, ci induce spesso a riflettere sulle nostre certezze.
Poi, dopo un lungo silenzio – saremo stati ormai alla fine del ponte Morandi, i cui lavori, iniziati quando Dario era appena nato, ora che ha nove anni non sono ancora conclusi – ha chiesto: «Ma se le bambine, a un certo punto, diventano ‘signorine’, noi maschi quando diventiamo ‘signori’?». Era spontaneo che, a quel punto, mi si parasse davanti il “signori si nasce (e io lo nacqui)” di Totò, ma la domanda di Dario era seria, e seriamente ho risposto. Gli ho parlato di me, di quando avvertii i miei cambiamenti, e di come ne fui contento e scontento. Dario ha ascoltato attentamente. Avrei voluto dirgli che si diventa ‘signori’ quando l’innocenza diventa un ricordo sbiadito.