Addio alla moglie dell'anarchico
Licia Pinelli è stata la più grande figura femminile della nostra Repubblica
Per me lei è una delle più grandi fi gure della Repubblica. Coraggio, dolcezza, e determinazione. Non si è mai arresa. Non ha mai fatto la vittima. Non ha mai avuto paura
Editoriali - di Piero Sansonetti
Per me lei è stata la più grande figura femminile della breve storia della nostra Repubblica. Più di Nilde Iotti, di Tina Anselmi, di Anna Magnani. Per me suo marito è stato un gigante. Per me. Poi so bene che se chiedo a 100 persone prese a caso chi erano questi due, almeno 95 mi rispondono: non lo so. Lei si chiama Licia Pinelli, è morta ieri, a 96 anni. Lui si chiamava Pino, Giuseppe, Pinelli. È morto pochi giorni prima del Natale 1969. Aveva 41 anni. Sulla porta di casa – un appartamentino piccolo piccolo, a Milano, due stanze e cucina, dove vivevano Licia e Pino con le loro due bambine – c’era una targa di legno con intarsiata questa scritta: “Io sono un anarchico”.
Lui è stato ucciso dalla polizia. E poi infamato dalla polizia. E dai giornali. Quasi tutti i giornali e le tv. Dissero, gridarono, scrissero, ripeterono che aveva messo la bomba alla banca dell’agricoltura, quel dodici dicembre di 55 anni fa, anno 1969, per uccidere degli innocenti. Dissero che si era suicidato, perché l’avevano beccato. Era falso. Assolutamente falso. Pinelli era del tutto innocente e in quella giornata maledetta del 15 dicembre – tre giorni dopo la strage – fu gettato dalla finestra della Questura e ucciso. Non sapremo mai il nome dell’assassino materiale. Sappiamo che fu ucciso dalla polizia. E che dopo averlo ucciso neanche telefonarono a Licia. Licia era a casa sua. Con le bambine. Claudia, di otto anni, e Silvia di nove. Arrivarono due giornalisti – forse erano Pansa e la Cederna – e le dissero che Pino era volato giù da una finestra della questura. Volato dal terzo piano, a testa in giù, mentre lo stavano interrogando nell’ufficio del commissario Calabresi.
Licia si attaccò al telefono. Riuscì a parlare con Calabresi. Chiese se era vero. Il commissario le disse di sì. Lei chiese perché non l’avevano avvertita. Le rispose che aveva avuto molte cose da fare. Sua suocera, la madre di Pino, le disse: «Licia, adesso, per giustificarsi, diranno che era colpevole». Licia rispose: «Loro faranno questo, ma ci siamo anche noi». Perché disse così? In un’intervista, qualche anno fa, Licia spiegò: «Perché io pensavo che l’Italia fosse uno stato di diritto». Non è così, signora Pinelli? «No». Non si è mai arresa. Sempre sobria, piuttosto silenziosa, dignitosa come forse mai nessuno è stato, ma la sua battaglia l’ha portata avanti fino a quando, una quindicina di anni fa, il presidente della Repubblica la invitò al Quirinale e le porse le scuse dello stato. Era Napolitano. Ma la verità? La verità no. Mai. Indagò sul delitto il giudice D’Ambrosio, quello che poi fu uno dei mattatori di “mani pulite”, e dopo anche senatore del Pd. Indagò e arrivò alla più scombiccherata conclusione alla quale si potesse arrivare. Disse che Pino era morto per “malore attivo”. Cioè accertò che non poteva essersi suicidato, sulla base delle perizie oggettive. Ma stabilì che neppure era stato ucciso. Che vuol dire “malore attivo”? Lo sa solo lo spirito santo.
Licia, quando parlava di quei giorni, di quelle ore, non riusciva a non ripetere una parola che le si è appiccicata addosso come un ossessione: Guida. È il cognome del questore, che si chiamava Marcello, e che annunciò alla stampa il suicidio di Pinelli, cioè dell’autore della strage. Disse così ai giornalisti. Loro presero appunti e poi fecero i titoli come glieli aveva consigliati Guida. Il questore dopo il 1969 fece una bella carriera. Fu promosso. Andò a lavorare con un alto grado al ministero dell’Interno. Nel 1970, trovandosi di fronte a lui, il futuro presidente della Repubblica, Sandro Pertini, si girò di scatto dall’altra parte: si rifiutò di stringergli la mano. Pertini aveva fatto il partigiano. Licia rilasciò poche interviste negli anni successivi. Una, che diventò un libro bellissimo, a Piero Scaramucci. A un certo punto, in una intervista video, le chiedono: «Ma lei era certa che suo marito fosse innocente?». Bisogna vederla la sua risposta, non basta leggerla. Un sorriso che era una via di mezzo tra il miele e la sciabola, come la sua rabbia, due secondi di silenzio, e poi quattro parole geniali: «la casa era piccola». Toccò a lei dire alle bambine che il papà era morto. La più piccola scoppiò a piangere. La seconda fece una domanda secca: «Chi è stato?». Nove anni, aveva. Ora ne ha più di sessanta e ancora non le hanno risposto.
Pinelli, il pomeriggio del 12 dicembre, non aveva messo la bomba. Aveva scritto la sua ultima lettera a un compagno anarchico che era stato arrestato, ingiustamente, per le bombe sui treni dell’estate precedente. Nella lettera c’era scritto in modo netto: “l’anarchismo non è violenza”. Quanto tempo è passato da allora. Decenni, decenni. Al funerale di Pinelli, in una mattina di inverno pieno, buia, fredda, c’era un sacco di gente. Fu accompagnato fino alla tomba dagli slogan e dai canti. “Addio Lugano Bella… Noi oggi ti accusiamo in faccia all’avvenir…”. la canzone che aveva scritto Pietro Gori nell’ottocento. E che magari ci toccherà cantare ancora… Quanto tempo è passato da allora. Eppure – dice Vasco – “sono tornati”. Chi? I fascisti. Erano stati i fascisti a mettere quella bomba del 12 dicembre che lasciò massacrati a terra 17 persone. Morte. Più i feriti. L’avevamo messa, quella bomba, con l’aiuto dei servizi segreti. Cioè dello Stato. Perché? Per fermare l’autunno caldo, la rivolta sociale, che faceva paura, che aveva portato nelle piazze milioni di operai e di ragazzi e che minacciava di far traballare l’establishment.
Noi dicevamo con una parola più semplice: borghesia. E la borghesia aveva reagito in parte cercando una soluzione politica a quella rottura (i socialisti, Moro), in parte armandosi e inventando il “terrorismo di Stato”. Un giorno poi ne riparliamo meglio. Ma da quella strage, e dall’uccisione di Pino, nasce una parte della nostra storia. E da quell’omicidio inizia la seconda vita di Licia. Io non l’ho mai conosciuta, ma è come se l’avessi conosciuta benissimo. Non so perché, ma sono convinto che lei sia il personaggio migliore del sessantotto. Che è stato il periodo migliore della storia della Repubblica. Le hanno chiesto: «Licia, crede ancora nella giustizia?». E lei, di nuovo, ha mostrato il suo sorriso disarmante: «Credo nella verità».