Si è spenta a 96 anni
Storia di Licia Pinelli, moglie dell’anarchico Pino ucciso dalla polizia
La questura neppure l’avvertì della morte di Pino. Si battè tutta la vita per conoscere la verità ma non si atteggiò mai a vittima. Lottò con dignità e coraggio anche quando tutti l’abbandonarono
Cronaca - di David Romoli
Non è mai stata “una storia quasi soltanto sua” e se il libro scritto che la raccontava, scritto nel 1982 con Pietro Scaramucci s’intitola così è solo per amarezza. Quella di Licia Pinelli, morta ieri a 96 anni, la stessa età che avrebbe avuto suo marito Pino se non fosse volato da una finestra della questura di Milano il 15 dicembre 1969, è la storia che nessuno vuole ricordare di questo Paese.
Una storia in cui un ferroviere anarchico pacifista e innocente può raggiungere con il proprio motorino la questura, per essere interrogato su una strage con la quale nulla aveva a che fare, e non tornare più dalle figlie piccole e dalla loro madre che prova a rassicurarle per rassicurarsi: “Gli fanno prendere un bello spaghetto e poi lo fanno tornare a casa”. Invece non torna, precipita dalla finestra in circostanze che tutti hanno fatto il possibile per non chiarire e dalla questura neppure si peritano di avvertire quella che è ormai la vedova Pinelli. Ci pensano i giornalisti, in piena notte: Giorgio Bocca, Camilla Cederna, Corrado Stajano e la questura spiega il mutismo con la fretta: “Non avevamo tempo”.
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È una storia in cui un anarchico viene trattenuto in questura molto oltre i limiti consentiti dalla Costituzione e nessuno se ne risente, nessuno presenta il conto, nessuno paga. Il cuore di tenebra di un Paese in cui l’intera direzione della questura di Milano mente spudoratamente, inventa “balzi felini” della vittima verso la finestra al ridicolo grido “È la fine dell’anarchia” e anche se tutti sanno che una parte del genere Pino Pinelli non l’avrebbe mai recitata, neppure con litri d’olio di ricino, per giorni e settimane moltissimi fingono di crederci.
Ma è anche la mesta storia di una sinistra milanese, almeno quella istituzionale, complice, con il magistrato infine costretto a occuparsi dell’increscioso caso, Gerardo D’Ambrosio, vicinissimo al Pci, che non potendo più spacciare la felina menzogna del suicidio s’inventa la favola del “malore attivo” e persino i più creduloni a quel punto, 8 anni dopo il fattaccio, nel 1977, la prendono per una sinistra barzelletta. Quasi soltanto di Licia è solo la dignità e la determinazione con la quale nonostante la congiura del silenzio, senza mai strillare ma anche senza mai arrendersi, la vedova di Pinelli ha combattuto la sua battaglia per una verità che probabilmente sapeva di non poter raggiungere. Però sapeva anche che questo non era un buon motivo per non cercarla.
Ma Licia Rognini non è solo la vedova di Pinelli, e le si fa un immenso torto ricordandola solo così. Lei, nata nelle Marche, trasferitasi nella metropoli lombarda a 18 mesi, è l’emblema e l’immagine delle donne proletarie milanesi di quella generazione. Figlia di un falegname anarchico finito operaio alla Pirelli. Cresciuta in una di quelle case col bagno in comune sul ballatoio dove vivevano stretti in poche stanze gli operai di Milano e al lavoro anche lei appena compiuti i 13 anni. Antifascista, sposata con un ex staffetta partigiana, poi ferroviere autodidatta e militante generoso come pochi, che aveva conosciuto a un corso di esperanto: il miraggio di una lingua universale. Tra le troppe vittime di quegli anni poche hanno saputo mostrare il coraggio, la dignità di Licia Rognini Pinelli, e anche quello è un manifesto alla resistenza e alla forza delle proletarie milanesi.
Cosa è stata la sua vita nei decenni successivi a quel 15 dicembre lo ha raccontato in un libro, Dopo: il lavoro per mantenere e crescere le figlie orfane, l’insistenza nel reclamare verità e giustizia senza mai riuscirci: nel 1978 anzi, oltre a negarle il risarcimento danni chiesto alla questura la condannarono anche al pagamento delle spese processuali. Ma anche la capacità di tornare a vivere cantando in un coro, con lo yoga e la meditazione, scrivendo libri di cucina, sfuggendo sempre alla parte della vittima, mai a quella di chi testimonia e continua a chiedere verità. Solo nel 2009, quattro decenni dopo la strage si è aperto uno spiraglio nel muro di gomma. L’allora presidente Napolitano invitò la vedova Pinelli al Quirinale con i parenti delle vittime della strage, indicò suo marito come “la diciottesima vittima della strage”. Un passo avanti ancora del tutto insufficiente, che non risarciva Licia e neppure questo Paese.
Perché davvero non è stato soltanto sua la storia di Licia Pinelli neppure quando, passati gli anni 70 e con loro la solidarietà corale e attiva, quasi tutti l’hanno lasciata sola o quando, dopo l’uccisione del commissario Luigi Calabresi, vittima di un barbaro assassinio che per gli omicidi era un atto di giustizia, gli omaggi al martire hanno cancellato il ricordo delle sue dichiarazioni bugiarde e imposto di negare ogni sua responsabilità nonostante fosse lui a interrogare il ferroviere. Quando si ripete che la strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969, ha segnato la fine dell’innocenza per l’Italia repubblicana, si dice solo una mezza verità. Fine dell’innocenza e delle illusioni nate con la Resistenza non è stata la strage fascista ma le bugie e le successive complicità dello Stato. È stata l’uccisione di Pino Pinelli.