Le condizioni nelle prigioni
Così governo e giudici calpestano la Costituzione: niente diritti ai detenuti
Nel gennaio di quest’anno, la Consulta ha chiarito che i prigionieri possono avere incontri intimi con i partner, ma per alcuni giudici di sorveglianza è un optional, come la doccia...
Giustizia - di Salvatore Curreri
Devo ringraziare pubblicamente il giudice di sorveglianza di Torino per aver offerto ai miei studenti un ottimo esempio di cosa sia un diritto fondamentale; di come esso si differenzi da una mera aspettativa; infine di quale sia – meglio: dovrebbe essere – il ruolo di garanzia della nostra Corte costituzionale.
La questione riguarda la condizione dei detenuti. Com’è arcinoto, oggi le nostre carceri, anche a causa del loro strutturale sovraffollamento, sono fatiscenti, insalubri e insufficienti. Per questo sono quasi sempre luoghi di sofferenza, alienazione e tempo perso; tutto il contrario rispetto a quella finalità rieducativa cui secondo l’art. 27.3 della Costituzione il trattamento penitenziario deve tendere. È come se il detenuto scontasse una “doppia pena”: l’una per la condanna inflitta, l’altra per le modalità con cui viene eseguita. In direzione ostinata e contraria rispetto a chi, anche al governo, considera il carcere una “discarica sociale”, un “cimitero dei vivi” popolato da soggetti per i quali si deve “buttare la chiave” perché devono “marcire sino all’ultimo giorno in galera”, la nostra Corte costituzionale rammenta sempre che in carcere entra la persona, non il reato. Per questo la detenzione costituisce certo una grave limitazione della libertà della persona ma non la sua soppressione, specie per quel residuo di libertà che rimane al detenuto, “tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale” (Corte costituzionale, 349/1993, 4.2).
In questo contesto, nel gennaio di quest’anno la Corte costituzionale, rompendo ogni indugio, ha stabilito che il detenuto, come già accade altrove (Francia, Spagna, Germania), può essere ammesso ad avere colloqui affettivi intimi, anche di natura sessuale, con il proprio partner, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina o ragioni giudiziarie. La stessa Corte, consapevole delle difficoltà pratiche nel dare esecuzione alla propria sentenza, aveva sollecitato l’amministrazione della giustizia, inclusi i diritti degli istituti penitenziari, a creare al loro interno gli spazi necessari, tenendo conto delle condizioni materiali della singola struttura e con la gradualità eventualmente necessaria. E così concludeva: “In questa prospettiva, l’azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze, potrà accompagnare una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena”.
Ebbene sembra proprio che, secondo quanto riportato da Luigi Ferrarella sul Corriere della sera, la giudice di sorveglianza di Torino non solo si sia sottratta a tale compito ma abbia finito financo per giustificare, anziché criticare, l’inottemperanza sul punto dell’amministrazione penitenziaria, nonostante sia trascorso un anno da quella sentenza. Sulla base della visione ottocentesca per cui i diritti fondamentali sono tali soltanto se graziosamente concessi dallo Stato, per la giudice quello all’affettività del detenuto non è un diritto soggettivo fondamentale ma soltanto una mera “aspettativa legittima” che “può trovare concreta realizzazione solo all’esito dell’avverarsi di più condizioni”. E siccome, nel caso specifico, il carcere di Asti “allo stato ha riferito la mancanza di idonei locali”, per la giudice ciò “determina il mancato avveramento di una delle condizioni e non consente all’aspettativa di trasformarsi in vero e proprio diritto”. Senza neppure la benché minima critica o sollecito all’amministrazione penitenziaria affinché invece si attivi per garantire il diritto sancito dalla Corte costituzionale.
Evidentemente, per la giudice torinese, sono i diritti fondamentali del detenuto che si devono adeguare alle condizioni carcerarie ed essere esercitati compatibilmente con esse, e non viceversa, essere queste ultime invece che devono corrispondere ai diritti incomprimibili della persona. Se a ciò aggiungiamo che pochi mesi fa il giudice di sorveglianza di Firenze, con un’ordinanza per fortuna poi rivista in appello, aveva stabilito che avere l’acqua calda in cella “non è un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”, mi pare evidente come alcuni giudici manchino di cultura costituzionale. Finora a fare orecchie da mercante alle sentenze e ai moniti della Corte costituzionale era la classe politica. Non vorremmo che questa insana abitudine si estendesse ora ai giudici. Ma se così fosse, stiano pure tranquilli: certamente almeno per questo non saranno criticati dal governo.