Alla esultanza della destra, per la tempestiva sanzione comminata dalle autorità a Christian Raimo, con sorpresa si è affiancato il giubilo del Foglio. Il timore per l’ordine costituzionale risiede soltanto nelle metafore di un uomo di lettere. Per converso, nulla è da eccepire a proposito del contegno benedetto da una destra che è salita al trono proprio con la smodatezza quale unica grammatica ammessa per raccattare consenso. Dopo aver acciuffato la chiave della stanza dei bottoni, i professionisti dell’offesa reiterata si atteggiano ora a custodi del politicamente corretto e del lecito per sorvegliare e punire opinioni considerate urticanti. Se lo scrittore romano merita la gogna, per dei graffi verbali inferti a un ministro, cosa bisognerebbe escogitare per stigmatizzare la comunicazione di una classe politica ostinata nel parlare brandendo il vituperio?
La Patriota stessa per anni ha sparso fango sui vertici dello Stato non disdegnando il linguaggio dell’aggressione. Quest’ultimo, spiega Schopenhauer nella sua analisi degli artifici disonesti recuperati per farsi valere nelle dispute, consiste in “una calunnia abbreviata, senza che ne vengano forniti i motivi”. Il detestato Napolitano (“dove sta lui, non sto io”) a più riprese fu coperto di valanghe di espressioni infamanti da Meloni: “O si è piegato alle pressioni della Francia o tramava con Parigi contro i nostri interessi nazionali”. Ulteriore randellata: “Vergogna! Basta con gli inciuci di palazzo, coi voltagabbana e i prestanome di qualcuno”. E, per rincarare la dose, ecco immancabile una visibile porzione di odio: “Penso che una persona che abbia fatto il presidente della Repubblica che non conosce la Costituzione si dovrebbe vergognare” (sic). Nel 2018 l’Underdog chiamò il senatore a vita Monti un “pupazzo dei poteri forti”, nel 2019 trafisse con un’aggettivazione ternaria il solito presidente emerito: “vile, incompetente e traditore”. A paragone delle formule reputate scandalose di Raimo, la premier ha confezionato frasi che sembrano, oltre che becere e denigratorie, a dir poco infuocate.
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E il vicepresidente del Consiglio, a caccia perenne di “zecche rosse” o di navi cariche di profughi, non è da meno nello smercio continuo dei simboli dello stile maleducato. Per un genuino estimatore del buongusto, al pari di Salvini, l’escalation degli affondi è una pietanza da palati raffinati (“Napolitano vergogna”). Il suo repertorio di scappatoie tese a schivare l’argomentazione prevede fisiologicamente il vilipendio in luogo della esposizione coerente: “Napolitano non dovrebbe essere intervistato, pagato e scortato, dovrebbe essere processato”. Talvolta il prontuario di stratagemmi e di colpi bassi è persino più diretto: “Napolitano è traditore, sarebbe da processare”, dal momento che “nei Paesi civili chi tradisce il proprio Popolo viene processato, non viene mantenuto a vita”.
Se il vecchio inquilino del Quirinale fu bombardato con l’accusa addirittura di alto tradimento, quello attuale non è risparmiato dalle schizzate del liquame nero-verde. Allorché Mattarella osò censurare le raffiche di manganelli cadute sul cranio di inermi bambini pisani, la presidente del Consiglio lo apostrofò a guisa di un inaffidabile facinoroso che aveva appena sbeffeggiato le divise: “Penso che sia molto pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni a chi ogni giorno rischia la sua incolumità per garantire la nostra”. Poiché al Colle il sentimento dominante è di norma la distaccata saggezza, verso la pioggia di acredine proveniente dalla destra la reazione è stata ogni volta nel segno della “risposta virile” suggerita da Borges (Storia dell’eternità, Adelphi): “Un gentiluomo, durante una discussione teologica o letteraria, ricevette in faccia un bicchiere di vino. L’aggredito non batté ciglio e disse all’offensore: «Questa, signore, è una digressione; aspetto la sua argomentazione»”.
La destra ha imposto nello spazio pubblico un canone di anti-comunicazione in cui la razionalità stramazza soffocata dalla provocazione irriguardosa. L’interruzione per mezzo di stilettate sguaiate oppure di sproloqui insensati serve a conseguire una mutatio controversiae e a cavarsi fuori dalle insidie grazie alla tattica ardita di “inforcare quel cavallo di battaglia” che permette di riscoprire la cattiva parola. Ancora Schopenhauer ha illustrato il fondamento della scelta di conservare l’invettiva, l’affronto costantemente a portata di mano (L’arte di ottenere ragione, Adelphi, p. 64): “Quando ci si accorge che l’avversario è superiore e si finirà per avere torto, si diventi offensivi, oltraggiosi, grossolani, cioè si passi dall’oggetto della contesa (dato che lì si ha partita persa) al contendente e si attacchi in qualche modo la sua persona”.
Tutte le volte che una pacata riflessione promette un sicuro fallimento, il sovranista in panne tenta di tamponare la sua inconsistenza culturale alterando le regole del discorso. Il senso del meccanismo di disturbo innescato con la punzecchiatura volgare è chiarito dal pensatore di Danzica: “Se durante una discussione, un altro dimostra una cognizione di causa più esatta, un amore della verità più rigoroso e un giudizio più sano rispetto a noi, o comunque una superiorità intellettuale che ci mette in ombra, possiamo subito eliminare questa e ogni altra superiorità, nonché la nostra stessa pochezza messa così a nudo, e viceversa essere noi superiori, diventando villani: una villania prevale e ha la meglio su ogni argomento, e a meno che il nostro avversario non replichi con una villania ancora maggiore… siamo noi i vincitori, l’onore è dalla nostra parte, e la verità, la conoscenza, lo spirito e l’ingegno debbono fare fagotto, una volta sconfitti e messi in scacco dalla divina villania” (Schopenhauer, L’arte di farsi rispettare, Adelphi, p. 71).
La ricerca del trionfo attraverso l’espediente inautentico della “divina villania” è l’arma retorica privilegiata su scala mondiale dalla destra, che a corto di idee e di galateo confida ovunque nella legge del più forte come rifugio di gran lunga migliore dell’onere di un insostenibile confronto dialogico. Il populista tira calci giacché suppone nella sua sfrontatezza che l’interlocutore difficilmente farà ricorso alle vie di fatto indicate negli aforismi di Schopenhauer (sputi addosso, schiaffi, bastonate). Lo stesso filosofo, dinanzi alla prospettiva bruta e spicciola di scendere a singolar tenzone, preferiva scongiurare grane con i tribunali ed evocare “un arguto autore italiano nostro contemporaneo, Vincenzo Monti, il quale sostiene che le ingiurie sono simili alle processioni religiose: ritornano sempre al punto da cui erano partite”.
L’attesa che il rituale dell’insulto si compia precisamente sul viso dal quale è stata in origine scagliata la copiosa saliva, è un rimedio meditato alle intemperanze degli insolenti. La destra radicale predilige la recita manesca e, precipitando nei bassifondi dell’eloquio, spesso accarezza “un appello all’animalità” che sostituisce il “decidere mediante ragioni” con “la lotta delle forze fisiche” (Schopenhauer). Il lessico che percuote “è una variante di ciò che si definisce ironicamente «il diritto del più forte»”, perciò per indole e ideologia la destra è attratta da questa forma di violenza dissimulata. In contraccambio, occorrerebbe rispolverare la leggerezza del motto spiritoso che delucida e fa centro. Se, per dirla con Borges, “la satira derivò dalle maledizioni magiche dell’ira, non dal ragionamento”, prendersi gioco di un campione dell’“animalità” è dunque un efficace ritrovato per dare sfogo al moto dell’indignazione.
Da abituale consumatrice del metodo dell’improperio, la destra di successo rientra nella categoria dell’estremismo politico pure mentre ingaggia una guerriglia irriducibile contro il primato del diritto comunitario sulle legislazioni nazionali. Invece di rallegrarsi per il castigo di Raimo, anche per il Foglio sarebbe utile comprendere perché i fuoriclasse della “villania” allarmino così tanto in Europa, spingendo i socialisti a rifiutare di eleggere un grigio meloniano alla vicepresidenza della Commissione.