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Martìn Castrogiovanni: “Il rugby è sostegno, grazie a questo ho imparato ad impegnarmi per l’inclusione e la crescita dei bambini”

Martìn Castrogiovanni: “Il rugby è sostegno, grazie a questo ho imparato ad impegnarmi per l’inclusione e la crescita dei bambini”

Noi adulti dobbiamo trasmettere il valore della passione ai più piccoli. Fargli vivere una difficoltà offrendogli anche la soluzione. Per loro lo sport non deve essere soltanto competizione e raggiungimento della vittoria. Deve essere esclusivamente amore, felicità e rispetto dell’altro“, a dirlo è stato Martìn Castrogiovanni leggenda della palla ovale e mito dell’Italrugby. A l’Unità ha raccontato cosa vuol dire impegnarsi nel sociale e nell’inclusione, soprattutto dei bambini, soprattutto di quelli meno fortunati e disabili. Una carriera straordinaria quella di Castro: nato 43 anni fa a Paranà in Argentina, grazie a un bisnonno, è stato ‘arruolato’ giovanissimo per la Nazionale Italiana di Rugby. Il resto è storia: uno scudetto e una Coppa Italia con il Calvisano, quattro Premiership in Inghilterra tra le fila delle gloriose tigri di Leicester, miglior giocatore del campionato nel 2006 (un record per un pilone, colui che nel rugby ‘regge’ insieme agli altri 7 ‘avanti’ la mischia), un campionato e due Heineken Cup (la Champions della palla ovale) con il Tolone e un altro scudetto, sempre in Francia, con il Racing di Parigi.

Martin Castrogiovanni: dal rugby alla solidarietà

Nel frattempo, ben 119 presenze12 mete con la Nazionale. Tra queste, tre rifilate al Giappone nel 2003 in un solo test match e quattro segnate nelle prime quattro partite nel 6 Nazioni del 2008. Indimenticabile quella realizzata contro la Francia nel 2013 che contribuì alla storica vittoria degli azzurri contro i Blues, proprio all’interno del torneo più antico del rugby. Castrogiovanni ha vantato anche un ‘invito’ nella storica selezione dei Barbarians: era il 2013 e la squadra apriva ad Hong Kong il tour dei British and Irish Lions in Australia. E pensare che tutto ha avuto inizio per un dispetto. La madre di Castrogiovanni che da piccolo praticava il basket, non voleva che il figlio corresse dei rischi giocando a rugby. Martìn, un giorno, spinse un arbitro e si fece radiare dal campionato di pallacanestro. Così il passaggio dalla palla tonda a quella ovale fu naturale. Ad oggi Castro è l’unico giocatore italiano ad essere stato inserito nella Premiership Rugby Hall of Fame. Ma la vittoria più bella è quella che il campione sta ottenendo ogni giorno con il lavoro svolto sul campo insieme ai ragazzi che affollano la sua academy.

La ‘Castro Academy’

Quest’ultima è la ‘ciliegina sulla torta’ di tutte le attività benefiche e sociali che da anni Castrogiovanni sta praticando (l’ex pilone è Ambasciatore per Amref ed ha gestito corsi di rugby nelle carceri per i detenuti). La struttura che comprende il campus si trova a Piancavallo (ad Aviano, in provincia di Pordenone). Alla ‘Castro Academy‘ non si pratica soltanto sport, non si gioca soltanto a rugby. Si impara a crescere, a far parte di un gruppo ad assimilare i principali valori della vita. Soprattutto si frequentano corsi di Wheelchair RugbyMixability. Ovvero, ragazzi e bambini ‘normali’ in squadra con quelli disabili. Nel primo caso, si tratta di una disciplina paraolimpica, giocata in carrozzina. In questo modo anche chi ha un uso regolare delle gambe, può immedesimarsi nell’altra condizione, comprendendone la difficoltà e cercando di superarla. Viceversa, chi è costretto a sedere sopra una carrozzina, non si sente escluso, anzi è parte integrante e primaria di un progetto, di un collettivo. Nel secondo caso, invece, si tratta di una modalità giocata con le stesse regole del World Rugby, contatto fisico compreso (le mischie sono no contest), le cui squadre sono composte in questo modo: 15 giocatori, di cui minimo cinque con disabilità intellettiva e/o fisica.

Intervista a Martin Castrogiovanni

Sei stato di recente in Africa con Amref. Puoi dirci cosa hai fatto, cosa hai visto e quali sensazioni hai portato con te tornando in Italia?

Sono stato in Etiopia ed è stata un’esperienza dalle emozioni contrastanti. Da un lato mi sono reso conto della fortuna che ho avuto nel nascere nella parte buona del mondo. Sono stato in un paesino al confine della Somalia. Una zona remota e sperduta del Paese. Mi ha colpito il fatto che per quelle persone è persino difficile avere l’acqua, cioè un bene più che primario. Una cosa che noi diamo per scontata. In fondo, ci basta aprire un rubinetto per poterne bere un bicchiere. Li, invece, le persone devono fare decine di chilometri per andare a prenderla. Non ci rendiamo conto di tutto ciò. Però dall’altra parte mi sono confrontato con un’enorme umanità. Ho visto luoghi dal punto di vista naturale meravigliose e conosciuto persone la cui storia mi ha riempito il cuore di speranza“.

Da tempo sei impegnato nel sociale e quest’anno ricorre un compleanno speciale: i dieci anni della ‘Castro Academy’. Vuoi fare un bilancio?

Innanzitutto, ho il desiderio di portare i ragazzi dell’Academy proprio in Africa. Secondo me, una cosa è leggere qualcosa o guardarla nelle foto o con dei video. Tutt’altro è vivere quella cosa. Penso che un giovane deve vivere determinate esperienze proprio per rendersi conto di come alle volte la vita può essere difficile. Allo stesso tempo, è fondamentale dargli gli strumenti per superare tali ostacoli. Ed è quello che in fondo faccio all’Academy, insieme al il mio staff. Noi facciamo stare insieme i ragazzi ‘normali’ con quelli disabili. Facciamo provare ad entrambi le sensazioni che rendono diverse le loro vite. Se noi andiamo in carrozzina, rispetto ad una persona abituata a starci sopra, diventiamo noi i disabili e ci rendiamo conto di cosa questo significa. Loro, invece, non si sentono ‘diversi’, anzi, maturano una sorta di senso di responsabilità, nell’essere parte di un gruppo che ha delle regole ben precise. Quindi tutti sono alla pari. Ed è questo che facciamo per aiutare quelle persone meno fortunate. E quando vedo il sorriso sui volti di quei bambini, mi sento più che ripagato“.

Cosa del rugby ti ha spinto ad impegnarti così tanto nelle attività benefiche?

Innanzitutto lo spirito combattivo. Sul campo si combatte e noi ai ragazzi vogliamo trasmettere la determinazione e il coraggio di affrontare i problemi, cercando di trovare la giusta soluzione. E poi il principio del sostegno. Vedi, io credo che ciò sia alla base di questo sport. Persino la profonda amicizia che nasce tra chi lo condivide, è originata dal sostegno. Cosa vuol dire? Che si è sempre uniti. Che quando avanzi con la palla sai che dietro di te ci sono 14 amici pronti a fare di tutto per te. Per difenderti, per aiutarti, per sostenerti. Grazie a questo nasce dentro di te la responsabilità che hai proprio nei confronti del compagno di squadra. È una cosa meravigliosa che ti porti dentro per tutta la vita. L’insegnamento più grande che questo sport può dare“.

Una volta hai raccontato che hai iniziato a giocare a rugby facendo un dispetto a tua mamma e facendoti radiare dal campionato di basket. È vero o è una ‘leggenda metropolitana’?

Si, è tutto vero. Mamma non volevo che giocassi a rugby. Ma io non volevo giocare a basket. Così trovai questo espediente: spinsi un arbitro, fui radiato e iniziai a frequentare il campo e a prendere tra le mani la palla ovale“.

Sono tanti i record che hai superato, molti i successi conquistati sul campo. C’è qualche aneddoto in particolare della tua carriera che ricordi con più affetto?

Devo essere sincero, non ho mai giocato per i primati. Il mio obiettivo è sempre stato quello di divertirmi dando tutto per la maglia e per la squadra. Quello che ho ottenuto non l’ho vinto da solo ma grazie ai tanti compagni con i quali ho avuto la fortuna di giocare. Ho due ricordi in particolare che mi piace raccontare. Entrambi fanno parte del periodo durante il quale ho giocato a Leicester. Per me indossare quella divisa è stata una delle esperienze più belle e formative della mia vita. Dopo il primo anno, dopo aver fatto una stagione straordinaria, iniziarono a girare delle voci di un mio trasferimento in Francia. Sai, non solo i calciatori pensano a guadagnare di più. Lo facciamo anche noi rugbysti. E il campionato francese è molto più ricco. Quando giocammo l’ultima partita della stagione in casa, i tifosi si vestirono con la mia maglietta, addirittura avevano parrucche e barbe finte per imitare il mio look. Fu una dimostrazione d’affetto talmente grande da convincermi a restare. Li ho capito che l’amore che puoi dare e ricevere è più importante di qualsiasi cifra possono offrirti. Poi le cose sono cambiate, ho avuto dei contrasti con la dirigenza e un allenatore e davvero mi trasferii in Francia. E qui veniamo al secondo aneddoto. Quell’anno vincemmo il campionato e il capitano di allora, Geordan Murphy (irlandese, uno dei numeri 15 – l’estremo – più forti della storia del rugby, ndr) volle che alzassi la coppa con lui. Mi aveva riconosciuto tutto ciò che avevo fatto insieme a loro in quegli anni. Fu un gesto meraviglioso che porto sempre nel cuore. Devo dire che è una cosa che gli anglosassoni hanno proprio nella loro cultura, nel loro dna. Noi su questo siamo un pò indietro“.

Sabato scorso (il 9 novembre, ndr) si è giocata Italia – Argentina, una partita per te molto speciale: quali sono le tue impressioni sul match e cosa pensi di questa Nazionale?

Questa partita non può macchiare quello che è stato fatto nell’ultimo 6 Nazioni. È stato un torneo straordinario e la sconfitta contro l’Argentina non può cancellarlo. Di fatto i Pumas sono più forti e in generale le squadre dell’Emisfero Sud sono avanti nella preparazione fisica ed hanno avuto più tempo per stare insieme. Questa differenza si è vista, il loro livello è stato superiore. Facci caso, i risultati delle partite vinte – in particolare da All Blacks e Australia (contro l’Inghilterra, ndr) – sono stati messi al sicuro negli ultimi 20 minuti del match. Questo ha dimostrato uno stato di salute migliore di queste squadre rispetto a quello dei team europei. Detto ciò, di sicuro l’Italia deve lavorare su alcuni dettagli. Sull’evitare quegli errori anche banali che a un certo livello paghi, perché questi avversari ti puniscono alla prima occasione. Inoltre, gli argentini sono stati dominanti sui punti d’incontro e questo ha reso il loro gioco superiore. Ora ai ragazzi non resta che individuare gli errori commessi, capirne le ragioni e risolvere i problemi. Ecco la lezione dello sport: lavorare e andare avanti per crescere e migliorare“.

Cosa ti ha insegnato l’esperienza fatta e che stai facendo in televisione?

Lavoro con alcuni dei mostri sacri della televisione. Sono molto felice. Questa e quelle passate sono delle bellissime esperienze. Sto bene, imparo tanto e mi diverto“.

Cosa c’è nel futuro di Castrogiovanni, quali sono i progetti che hai in mente e che vorresti realizzare?

Eh, potremmo scriverci un libro. Il mio lavoro è come quello della semina: mettere un seme nel terreno, curarlo e farlo crescere con i tempi giusti. E questo è quello che cerchiamo di fare con i bambini. Sono tranquillo, sereno e sicuro di quello che stiamo facendo. Cerchiamo di far diventare questi ragazzi degli adulti. Ma siamo anche consapevoli che un giovane di 14-15 anni deve divertirsi. Il bambino deve fare il bambino, l’adulto deve essere adulto. Dobbiamo trasmettere la sola passione, la purezza e l’amore di ciò che si fa. Alimentando la voglia di imparare e migliorare. Fargli capire che nella vita non contano solo la performance e i risultati individuali, ma soprattutto ciò che si può condividere insieme agli altri, rispettando se stessi e il lavoro altrui. In fondo, è questo che cerchiamo di fare“.

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