I padani esultano per mascherare la sconfitta

Autonomia stroncata dalla Consulta, ma la Lega fa festa: Meloni gode e punta ad evitare il referendum

Meloni non si strappa i capelli per la sonora bocciatura della secessione: evitare il referendum significa per la premier evitare di tornare a casa anzitempo

Politica - di David Romoli

16 Novembre 2024 alle 09:00

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Photo by Roberto Monaldo / LaPresse
Photo by Roberto Monaldo / LaPresse

L’autonomia differenziata è uscita a brandelli dal vaglio della Corte costituzionale. I leghisti fingono di essere comunque soddisfatti. Luca Zaia assicura che i rilievi sulla definizione dei Lep saranno sanati in Parlamento, comunque il principio dell’autonomia è salvo a norma di Costituzione e quindi avanti così.

Ma ancor più dell’ordine di decidere i Lep in Parlamento e per legge invece che in quattro e quattr’otto con uno di quei dpcm che andavano alla grande nell’era Covid il passaggio che smantella l’architrave dell’autonomia leghista è un altro. È quello che vieta di devolvere alle Regioni intere materie, come l’Istruzione, e impone di limitarsi, motivatamente, a specifiche parti di quelle materie. I leghisti lo sanno perfettamente ma non resta loro altro del buon viso a cattivo gioco che è comunque meglio dell’ammettere la sconfitta piena.

Per Giorgia le cose stanno molto diversamente. Se ci si limitasse alla sostanza avrebbe tutti i motivi di festeggiare. Tra le tante mine piazzate sui futuri percorsi del governo l’autonomia di Calderoli era forse la più insidiosa, con un bel carico d’ironia trattandosi di una riforma che a lei e al suo partito, di cultura opposta, non piaceva affatto. Se c’era un passaggio in grado di scardinare la compattezza della maggioranza era proprio il referendum sull’autonomia, nel quale la leadership di Fi avrebbe preso una posizione tiepida ma il partito del sud, e Fi è oggi soprattutto un partito del Sud, affilava già le armi contro la legge.

Gli elettori, inclusa buona parte di quelli “tricolori” non avrebbero gradito e il rischio che al referendum fosse raggiunto il quorum era considerato del tutto realistico. Ma anche senza quorum la campagna referendaria avrebbe portato sotto i riflettori per mesi il danno arrecato al Sud con le possibili conseguenze sugli orientamenti elettorali facilmente immaginabili. Nel concreto, insomma, i giudici costituzionali hanno fatto alla premier un grosso favore. Ma sul piano dell’immagine, che certo non è secondario, la situazione è opposta. La prima e per ora unica tra le grandi riforme annunciate dalla destra al governo ha ballato una sola estate prima di essere azzoppata una volta per sempre dalla Consulta. Il premierato è meglio che resti fermo ai box perché anche lì il referendum è ad alto rischio ed è meglio correrlo dopo le elezioni politiche, nella prossima legislatura. La “madre di tutte le riforme” è un accelerato, non un treno ad alta velocità lanciato verso il futuro e quanto tutto ciò giovi all’immagine della presidente non c’è bisogno di specificarlo.

Sarebbe un guaio, ma non esiziale, se il danno d’immagine fosse circoscritto alle riforme. Ma non è così: il caso Fitto, quello che rischia di tirare a fondo l’intera nascitura Commissione europea, è a propria volta questione soprattutto d’immagine. La vicepresidenza contestata da socialisti, liberali e verdi al commissario Fitto in sé significa ben poco. Meloni l’ha pretesa per lavare l’onta di essere stata messa all’angolo nelle trattative sulla presidenza della Commissione e Ursula la ha incautamente accontentata. Ora però quel titolo in sé semivuoto è diventato il simbolo di un allargamento a destra della maggioranza realizzato senza dirlo ma praticando l’obiettivo. I socialisti e i verdi, che della maggioranza sono parte integrante s’impuntano, pretendono la revoca delle vicepresidenza. I liberali spalleggiano. I popolari resistono e bersagliano la vicepresidente socialista, Teresa Ribeira. Il muro contro muro rischia di schiacciare la nuova Commissione e anche la sua peraltro poco amata presidente.

Come venirne fuori in tempo per il voto finale dell’aula di Strasburgo, il 27 novembre, nessuno lo sa. Fitto si è aggrappato a Sergio Mattarella, che all’estero gode di grandissimo credito e il presidente non ha fatto mancare un discreto ma chiaro appoggio, con una nota in cui segnala l’importanza di Fitto per gli interessi nazionali. Un tempo la parola di Mattarella sarebbe stata per il Pd legge. Ma le cose stavolta non stanno così. Il Pd non fa questioni su Fitto commissario o sulle sue deleghe. Ma la vicepresidenza, che è una scelta politica, quella no. Insomma la vicepresidenza resta molto pericolante e per la premier, che se la rivende da mesi come immenso successo e prova provata dell’importanza attribuita oggi all’Italia grazie al governo in carica, la sconfitta sarebbe secca e grave.

Poi c’è l’Albania. Doveva essere il fiore all’occhiello. Non si contano le esternazioni nelle quali la premier sottolineava come mezzo mondo guardasse a quell’idea coma la trovata geniale in grado di rovesciare come un guanto le politiche sull’immigrazione non “della nazione” ma del continente. Costosa, inutile e illegale la strategia della quale il protocollo con l’Albania doveva essere smagliante modello sta naufragando nel ridicolo e porta a fondo anche l’immagine di Giorgia Meloni. Ora ci si è messa anche la rotta sull’autonomia della quale, proprio perché volente o nolente ci va di mezzo anche lei, non può nonostante tutto essere contenta.

16 Novembre 2024

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