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Depistaggio sulla strage di via D’Amelio, altri quattro poliziotti a giudizio

FOTO DI REPERTORIO – Foto LaPresse

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Inizierà, il prossimo 17 dicembre a Caltanissetta, un nuovo processo sui depistaggi che caratterizzarono le indagini sulla strage di via D’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Sul banco degli imputati i poliziotti Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi, Angelo Tedesco e Maurizio Zerilli, all’epoca appartenenti al gruppo investigativo “Falcone e Borsellino” che indagava sulle stragi mafiose del ‘92. La Procura di Caltanissetta li accusa di aver reso false dichiarazioni nel corso delle loro deposizioni in qualità di testimoni in un precedente processo, sempre sui depistaggi delle indagini sulla strage di via D’Amelio.

I difensori dei quattro poliziotti hanno sempre ribadito che i loro assistiti non avevano mai depistato e mai mentito al processo. “Sono servitori dello Stato”, ma soprattutto erano “l’ultimo chiodo della ruota di un carro che muove qualcun altro…”, dissero i legali, chiedendone il proscioglimento. Di diverso avviso il gup del Tribunale di Caltanissetta che ieri ha disposto il rinvio a giudizio per tutti. Essendo ormai evidente che il depistaggio delle indagini sulla morte di Borsellino venne pianificato dagli apparati dello Stato prima ancora che si consumasse la strage di via D’Amelio, l’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia del magistrato ucciso e marito della figlia Lucia, ha deciso di costituirsi parte civile contro il Ministero dell’interno e la Presidenza del Consiglio dei ministri. La nuova inchiesta di Caltanissetta era nata a seguito della sentenza del processo celebrato nei confronti di altri tre poliziotti: Mario Bò, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Chiamati a testimoniare sulle condotte tenute dai loro colleghi, Zerilli disse 121 non ricordo, Tedesco 100 e Di Gangi 110. Un record.

Il presidente del collegio Francesco D’Arrigo, ritenuto il comportamento omertoso e reticente, aveva allora trasmesso gli atti in Procura affinché si procedesse nei loro confronti per falsa testimonianza. “Nel clima di omertà istituzionale il dibattimento ha consentito di cristallizzare quattro ipotesi nelle quali soggetti appartenenti o ex appartenenti alla polizia di Stato e al gruppo Falcone e Borsellino hanno reso dichiarazioni insincere”, si legge nella sentenza di D’Arrigo, che ha dedicato grande spazio alla sparizione dell’agenda rossa su cui il magistrato annotava i suoi appunti. “Può ritenersi certo — prosegue — che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di Cosa nostra”. “Quel che è certo è che la gestione della borsa di Borsellino dal 19 luglio al 5 novembre è ai limiti dell’incredibile: nessuno ha redatto un’annotazione o una relazione sul suo rinvenimento, nessuno ha proceduto al suo sequestro, nonostante da subito vi fosse stato un evidente interesse mediatico”, continua la sentenza.

Nel mirino dei magistrati era finito l’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, morto per un tumore al cervello nel 2002. L’alto funzionario è ritenuto ormai il “regista” dell’operazione Scarantino, anche se i magistrati hanno escluso che fosse colluso con la mafia. “Non c’è prova che sia stato a disposizione dei Madonia”, scrive sempre D’Arrigo. Per il Tribunale avrebbe agito “per finalità di carriera”, facendo “letteralmente carte false per potere mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della polizia di stato e nell’establishment del tempo”. La Barbera è morto da più di vent’anni e non può più rispondere. Possono però rispondere i poliziotti che lavoravano con lui e che fino ad oggi non hanno mai sentito l’esigenza di raccontare chi decise di insabbiare le indagini sulla morte di Borsellino.

Non è pensabile, infatti, che il depistaggio fosse stato condotto solo da parte di appartenenti alla polizia di Stato senza l’avallo della magistratura da cui erano funzionalmente dipendenti. “Dopo 10 anni di sottoposizione ad indagini a vario titolo, il mio assistito affronterà anche il calvario del processo, vera pena per tutti i cittadini esenti da responsabilità”, ha dichiarato ieri al termine dell’udienza l’avvocato Giuseppe Seminara, legale di Maniscaldi.