Lo stop della Corte Costituzionale
La Corte Costituzionale stronca l’autonomia differenziata leghista: la secessione è morta ma Salvini esulta…
Dai Lep alla sussidiarietà, la Consulta ha impartito una lezione di diritto ai novelli padri costituenti leghisti. L’autonomia è stata colpita al cuore, bocciata su tutta la linea. Ma Salvini esulta. Contento lui...
Editoriali - di Salvatore Curreri
1. Se non è una bocciatura totale, poco ci manca. Perché se è vero che la Corte costituzionale non ha bocciato l’intera legge sull’autonomia differenziata delle regioni ordinarie (n. 86/2024, c.d. Calderoli), è anche vero che l’ha colpita al cuore in molti suoi elementi essenziali. Il punto, infatti, non è l’incostituzionalità in sé dell’autonomia differenziata, come con una certa arditezza era stato pur chiesto (l’incostituzionalità di un articolo della Costituzione perché contrario ai suoi principi fondamentali!), quanto le modalità con cui s’intende realizzarla. E sotto questo profilo la legge Calderoli – tra incostituzionalità dichiarate (sette) e interpretazioni costituzionalmente orientate (cinque) – ne esce con le ossa rotte, al di là degli scontati tentativi di minimizzare la portata della sentenza da parte del suo promotore.
Ovviamente leggeremo con attenzione le motivazioni di una sentenza (peraltro decisa significativamente dopo appena due giorni di camera di consiglio, segnale di un diffuso consenso tra i giudici) che già si preannuncia lunga e complessa e che per questo è ragionevole prevedere non saranno depositate a breve (il termine massimo, comunque ordinatorio, è venti giorni). Ma già dal comunicato stampa diffuso giovedì sera si possono individuare in filigrana alcuni punti fondamentali che hanno ispirato la decisione della Corte.
2. Innanzi tutto il ruolo del Parlamento che nella legge Calderoli era relegato ai margini delle trattative Governo-Regione e che ora recupera la sua necessaria centralità quale sede della rappresentanza politica nazionale. Da qui l’incostituzionalità delle disposizioni che lo bypassavano: a) prevedendo l’aggiornamento dei Lep (livelli essenziali di prestazione) tramite Decreto del presidente del Consiglio dei ministri (dPCm) anziché per legge; b) non indicando idonei criteri direttivi nella delega legislativa per la determinazione dei Lep concernenti i diritti civili e sociali per cui grazie a tale delega in bianco la loro “decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del Governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento”. Sempre in quest’ottica, la Corte ha chiarito che l’iniziativa legislativa in materia di autonomia differenziata non spetta soltanto al Governo e – soprattutto – che il Parlamento, quando sarà chiamato ad approvare le intese con le Regioni, non è costretto a “prendere o lasciare” ma può introdurvi modifiche per cui in tal caso l’intesa potrà essere eventualmente rinegoziata. Tutto sacrosanto.
3. Il secondo punto fondamentale riguarda la stessa nozione di autonomia differenziata che, inquadrata nel contesto della forma di Stato italiana, va declinata in senso solidarista e non competitivo o, peggio, secessionista. L’Italia è e deve rimane “una e indivisibile” (art. 5 Cost.) per cui le forme e condizioni particolari di autonomia che le regioni ordinarie possono reclamare devono essere esercitate in modo tale da non entrare mai in contrasto con i principi dell’unità della Repubblica, del bene comune della società, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini e dell’equilibro di bilancio.
La chiave di volta è il principio costituzionale di sussidiarietà che, nel regolare la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni, vuole che esse siano allocate al livello di governo che effettivamente ne garantisca il migliore e più efficace ed efficiente esercizio da parte degli apparati pubblici, senza automatismi o presunzioni di sorta a favore delle regioni, così da corrispondere al meglio alle attese e ai bisogni dei cittadini. Da qui l’incostituzionalità di tutta una serie di disposizioni che invece davano per dimostrata, per così dire, l’opportunità di tale trasferimento. Così ad essere trasferite non potranno essere più in blocco tutte e ventitré le materie o gli ambiti di materie ma soltanto “specifiche funzioni legislative o amministrative”.
Inoltre, tale trasferimento dovrà essere giustificato in base al suddetto principio di sussidiarietà per cui ogni regione dovrà concretamente dimostrare perché ritiene di poter esercitare meglio dello Stato quella specifica funzione. Parimenti, in nome di un regionalismo solidale e non competitivo, le regioni destinatarie della devoluzione devono – e non semplicemente possono – concorrere agli obiettivi di finanza pubblica, per cui non hanno la facoltà di sottrarsi a quei vincoli di solidarietà su cui si fonda l’unità della Repubblica. Infine, chiarisce la Corte, la stessa distinzione tra materie Lep e (le nove) materie-no Lep va ridimensionata perché il trasferimento delle materie no-Lep non potrà mai riguardare funzioni attinenti a prestazioni che incidono sui diritti civili e sociali che rientrano come detto nei livelli essenziali e che vanno uniformemente garantiti su tutto il territorio nazionale.
4. Infine la tenuta dei conti pubblici, per evitare che il trasferimento delle funzioni si traduca in un drenaggio delle risorse finanziarie a vantaggio delle regioni più ricche a scapito delle altre. È dunque incostituzionale la previsione che avrebbe consentito di modificare, con semplice decreto interministeriale, le aliquote di compartecipazione al gettito dei tributi erariali prevista per finanziare le funzioni trasferite perché ciò potrebbe finire – come aveva già segnalato l’Ufficio parlamentare di bilancio – per premiare paradossalmente le regioni inefficienti che non sono state in grado di assicurare con le risorse ottenute dallo Stato il compiuto adempimento delle funzioni trasferite a scapito delle altre Regioni che subirebbero i conseguenti tagli.
Inoltre l’individuazione di tali risorse, tramite la suddetta compartecipazione, non potrà avvenire in base alla spesa storica – criterio penalizzante per le regioni meridionali (ad esempio la media nazionale della spesa per i servizi sociali è 124€, però di 177€ nel Nord-est e di appena 58€ al Sud) – ma dovrà prendere a riferimento i costi e i fabbisogni standard sulla base di criteri di efficienza. Infine, nella individuazione delle risorse per finanziarie le funzioni trasferite, si dovrà tenere conto del quadro generale della finanza pubblica, degli andamenti del ciclo economico, del rispetto degli obblighi eurounitari, per non compromettere l’equilibrio di bilancio.
5. Non sono dunque pochi, né di poco momento, i “vuoti” – così la Corte li definisce – derivanti da tale sentenza e che il Parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità, dovrà colmare, pena l’inapplicabilità della stessa riforma. Richiamo che in certo senso potrebbe confermare l’impressione che i due referendum (l’uno totale, l’altro parziale), se non totalmente superati alla luce della sentenza della Corte (su questo si pronuncerà la Cassazione), avranno ad oggetto aspetti ormai marginali della legge Calderoli. Certo è che, come detto all’inizio, che la sentenza della Corte – ennesimo capitolo di una maggioranza che dimostra la sua cultura anticostituzionale – costringerà Calderoli e soci a ripensare in radice l’impostazione della sua legge.
Ma, del resto, il nostro non è nuovo a subire sonore bocciature da parte dei giudici di Palazzo della Consulta…