Il 14 novembre del 1974

Quando e come sono nati in Italia garantismo e giustizialismo: la voce di Pasolini

14 novembre del 1974, Pasolini scrive sul Corriere: “Io so i nomi ma non ho le prove”. Feroce atto di accusa contro la Dc. 10 marzo 1977, Moro risponde: “Non ci faremo processare”

Editoriali - di Piero Sansonetti

16 Novembre 2024 alle 23:00

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Foto collage Lapresse
Foto collage Lapresse

Esattamente 50 anni fa, il 14 novembre del 1974, Pier Paolo Pasolini scrisse un articolo di fondo sul Corriere della Sera intitolato: “Cos’è questo golpe? Io so”. Un articolo bellissimo. Di rottura, firmato forse dal più celebre intellettuale italiano, che campeggiava sulla prima pagina del più borghese dei giornali della borghesia. Il direttore del Corriere era Piero Ottone, la proprietaria del giornale era Giulia Crespi, “principessa” della Milano bene che aveva subìto e assorbito tutte le suggestioni del ‘68. Ottone restò al Corriere per cinque anni, dal 1972 al 1977, e fu alla testa forse della più grandiosa esperienza del giornalismo italiano.

Pasolini in questo articolo puntava il dito sulla Democrazia cristiana, e la indicava come responsabile del terrorismo di Stato. C’erano state le stragi (piazza Fontana, Brescia, Italicus). Pasolini scriveva: “Io, so, io so i nomi ma non ho le prove e neanche gli indizi”. Demoliva la classe politica italiana, o più precisamente i partiti di governo, perché salvava il Pci. Definiva il Pci “un Paese pulito in un Paese sporco” e apriva formalmente, in modo clamoroso, la questione morale che Berlinguer riprenderà solo sette anni dopo. L’articolo di Pasolini, se lo leggete bene, contiene – a livelli altissimi – tutti gli elementi sui quali si fonda il giustizialismo. Ancora oggi. A partire dai due principali: la condanna senza prove e la strategia del sospetto; e il disprezzo per la politica, considerata un luogo di corruzione e di crimini.

Chi erano i nomi che Pasolini sapeva, cioè ai quali allude? Erano i tre cavalli di razza della Dc: Moro, Fanfani e Andreotti. Ma leggendo bene il testo quella che si staglia è la figura di Aldo Moro. Pasolini, dopo quell’articolo, visse solo un anno. Pochissimo meno. Fu ucciso il 2 novembre del 1975 sulla spiaggia di Ostia, in circostanze ancora non chiarissime, da un suo giovane amante, Pino Pelosi, “la rana”, un ragazzino di 17 anni di San Basilio, col quale, poche ora prima di morire, era andato a mangiare una pizza in una trattoria vicina a San Paolo (Il Biondo Tevere: c’è ancora credo). La risposta solenne all’articolo di Pasolini venne due anni e mezzo dopo. Fu Aldo Moro in persona a pronunciarla.

Era la notte tra il 10 e l’11 marzo del 1977 (e anche qui la coincidenza vuole che mancasse un anno quasi esatto al rapimento di Moro) e a Camere riunite si discuteva se mettere o no in stato di accusa due ex ministri della Difesa: il socialdemocratico Mario Tanassi, che era stato segretario pochi anni prima del Psdi e poi del partito socialista unificato (Psi più Psdi), e il democristiano Luigi Gui. Erano accusati di avere intascato delle tangenti (non per se, allora non si usava: per il partito) in un gigantesco affare che riguardava l’acquisto di aerei (gli Hercules) da una ditta americana che si chiamava Lockheed: fu uno scandalo gigantesco, che coinvolse mezza Europa. Le tangenti sicuramente erano state pagate, in Italia e in diversi altri paesi, ma a chi siano arrivate è molto difficile da stabilire.

Allora le cose, per quel che riguardava i ministri e gli ex ministri, funzionavano così: la magistratura denunciava alla commissione inquirente, che era un commissione bicamerale il cui Presidente, di norma, era un esponente dell’opposizione. In quel momento era il comunista D’Angelosante. E all’inquirente furono denunciati Gui, Tanassi e l’ex primo ministro Mariano Rumor. L’inquirente istruiva il caso e poi formulava, se lo riteneva necessario, la richiesta di messa in stato d’accusa rivolgendola al Parlamento. Il quale, in seduta comune, decideva se prosciogliere o mandare al giudizio definitivo e senza appello della Corte Costituzionale. L’inquirente prosciolse Rumor e mandò al Parlamento Tanassi e Gui. Toccò ad Aldo Moro, che era il presidente della Dc (segretario Zaccagnini che era succeduto a Fanfani dopo la sconfitta del referendum) pronunciare l’arringa difensiva.

Io all’epoca ero un giovane giornalista de l’Unità, e accolsi molto male il discorso di Moro. Mi parve una mossa arrogante e aggressiva, di copertura di uno scandalo gigantesco. Così come invece avevo accolto con entusiasmo l’articolo di Pasolini, che pure non amavo eccessivamente anche perché, prima di scrivere questo articolo ne aveva scritto uno contro la depenalizzazione dell’aborto.
Beh, riletto oggi, il discorso di Moro è straordinario. Un monumento allo Stato di diritto. Un manifesto di fondazione del garantismo. Non solo Moro difese a spada tratta il suo amico Luigi Gui, che era una persona straordinaria, aveva portato in porto una riforma della scuola notevolissima (mi pare nel 1962) e cioè la riforma che sconfisse l’analfabetismo; e precedentemente si era pronunciato con coraggio, quasi da solo tra i Dc, contro l’adesione dell’Italia alla Nato, e non si sarebbe mai sognato di fare cose disoneste. Non solo – dicevo – Moro difese Gui, ma soprattutto difese il suo partito e difese la politica. Rivendicando il ruolo superiore della politica e la sua funzione altissima di governo, e di riforma, e di stabilizzazione della società, e di baluardo della libertà.

Oggi, nel cinquantesimo di quel discorso di Pasolini, ripubblichiamo su l’Unità questi due interventi perché sono attualissimi. E rispecchiano, in modo davvero molto elevato, due posizioni lontanissime tra loro e che ancora sono strumenti decisivi nella battaglia politica. La differenza tra allora e oggi? Probabilmente allora Pasolini era minoranza. E Moro maggioranza. Oggi sicuramente è il contrario. Del resto la sconfitta di Moro fu quasi immediata. Lui concluse il discorso rivendicando il ruolo della Dc e gridando: “Non ci faremo processare nelle piazze”. Profezia alla rovescia. Il processo a lui, da parte delle Br, iniziò un anno e cinque giorni dopo gli applausi e i fischi che aveva ricevuto a Montecitorio.

P.S. Gui e Tanassi furono rinviati a giudizio. La Corte Costituzionale assolse Gui e condannò Tanassi a due anni e quattro mesi di prigione.

 

16 Novembre 2024

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