Un successo propagandistico
Cosa sta accadendo a Guantanamo tra omicidi impuniti e innocenti nel braccio della morte
La Corte Federale, dicono gli esperti, probabilmente riaprirebbe molte delle questioni. A questo servirebbero le confessioni “patteggiate”: a ridurre di molto il contenzioso legale. Ma sta arrivando Trump, e qui la capacità di previsione di tutti gli esperti si arrende.
Esteri - di Valerio Fioravanti
Ne avevamo scritto ad agosto: a Guantanamo i processi sono in stallo. Da un lato il tentativo di rispettare almeno alcune delle regole fondamentali dello stato di diritto, dall’altro il desiderio dei politici (che si sono alternati negli ultimi 20 anni) di portare a casa un successo propagandistico senza andare troppo per il sottile.
A fine luglio la Pubblica accusa, dopo un anno di trattative “a porte chiuse” aveva reso noto di aver raggiunto un accordo con i 3 uomini accusati di essere i mandanti “logistici” degli attentati dell’11 settembre: loro si sarebbero “dichiarati colpevoli”, e in cambio non sarebbero stati condannati a morte. Ovviamente la Pubblica accusa di una corte militare è militare anch’essa, e quindi risponde “gerarchicamente” al ministero della Difesa. Era quindi del tutto evidente che le trattative fossero state concertate con i vertici politici, la cosiddetta “amministrazione Biden”. La quale, però, troppo vicina alla campagna elettorale, non ha retto alle polemiche scatenate dai politici repubblicani, e già due giorni dopo aveva sostenuto di non aver dato il proprio placet finale all’accordo.
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Il ministro della Difesa (che viene chiamato Segretario) Lloyd Austin, l’11 settembre, nel giorno dell’anniversario, aveva formalizzato, o meglio, credeva di aver formalizzato, la revoca dell’accordo. Il 7 novembre (come previsto dagli osservatori più imparziali) il giudice militare che presiede il processo ha stabilito che l’accordo non può essere revocato, e rimane valido. E il 9 novembre, ad elezioni ormai perse, Austin ha dichiarato che la Difesa farà ricorso. Il contrammiraglio Aaron Rugh, procuratore capo, ha inviato una lettera alle famiglie delle vittime per informarle della decisione. Tra le famiglie delle vittime, 250, coordinate da Elizabeth Miller, figlia di uno dei vigili del fuoco morti a New York durante i soccorsi, sono favorevoli all’accordo. Le altre presumibilmente no.
Ma non è questo il punto, i processi non sono dei sondaggi d’opinione. La questione è più sottile: il dipartimento della Difesa ha il potere di nominare i giudici militari e anche la pubblica accusa militare, ma non è detto che questo dia al Segretario (ministro) il potere legale di annullare un provvedimento preso dal personale una volta che questo è stato nominato. Potrebbe eventualmente licenziarlo, ma questo non impatterebbe retroattivamente con le decisioni già prese. Un altro aspetto si staglia sullo sfondo: la Corte suprema degli Stati Uniti ha più volte confermato la costituzionalità della pena di morte a condizione che sia riservata ai casi “peggiori tra i peggiori”.
Nell’eventualità non venissero condannati a morte i responsabili di 3mila omicidi, diventa interessante la questione legale di come altri possano invece venir condannati a morte per reati che – per forza di cose – saranno molto meno gravi. Per il resto, il patteggiamento proposto a Khalid Sheikh Mohammed, Walid bin Attash e Mustafa al-Hawsawi nasce dall’estrema difficoltà per la pubblica accusa di presentare in aula prove “valide”, nel senso che contro gli imputati ci sono informazioni “riservate” ottenute da servizi segreti statunitensi e di alleati, e le poche ammissioni fatte dagli imputati sono state ottenute sotto tortura, e sia Cia che Fbi si rifiutano di fornire informazioni su chi ha condotto tali interrogatori, rendendo così impossibile quella pratica tipica dei processi che è il “controinterrogatorio del testimone”.
Gli accordi, e il tentativo di Austin di annullarli sono solo gli ultimi episodi in un processo che da quasi venti anni non riesce a superare le fasi preliminari. Mentre alcuni sono irremovibili sul fatto che i processi debbano continuare fino alle condanne a morte, gli esperti dicono che non è chiaro se ciò potrà mai accadere. Prevedono che se questo caso arriverà mai a condanna, non “reggerà” davanti alla Corte d’Appello federale di Washington. Già, perché il Patriot Act che nel 2001 istituì le corti di Guantanamo, corti ibride segnate dalla contraddizione di voler usare dei militari per processare dei civili, nel tentativo di arginare questa contraddizione fece due “concessioni”: gli imputati potevano essere difesi da avvocati non militari, e la supervisione legale veniva affidata alla principale corte federale, quella del “Distretto di Columbia”. La Corte Federale, dicono gli esperti, probabilmente riaprirebbe molte delle questioni. A questo servirebbero le confessioni “patteggiate”: a ridurre di molto il contenzioso legale. Ma sta arrivando Trump, e qui la capacità di previsione di tutti gli esperti si arrende.