All’udienza del processo sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore friulano sparito e torturato prima di essere ucciso a gennaio del 2016 in Egitto, è stata trasmessa una video testimonianza sconvolgente. “Giulio Regeni era ammanettato con le mani dietro la schiena, con gli occhi bendati. L’ho rivisto che usciva dall’interrogatorio, sfinito dalla tortura. Era tra due carcerieri che lo portavano a spalla. Lo stavano riportando alle celle. Non era nudo, indossava degli abiti, dei pantaloni scuri e una maglietta bianca. Ho visto un altro detenuto con segni di tortura sulla schiena”.
È quello che racconta un cittadino palestinese detenuto in una struttura degli apparati egiziani. La sua versione è stata tratta da un documentario andato in onda su Al Jazeera. A Roma è in corso il processo ai quattro 007 egiziani accusati della morte del ricercatore. Il procedimento è a carico del generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif.
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Il testimone palestinese ha detto che i torturatori chiedevano insistentemente al ricercatore “’dove hai imparato a superare le tecniche per affrontare l’interrogatorio?’ Ricordo più volte questa domanda ripetuta in dialetto egiziano o in arabo. Non so se Giulio ha risposto o meno. Insistevano molto su questo punto, erano nervosi. Usavano la scossa elettrica e lo torturavano con la corrente”.
Ha aggiunto di aver visto Regeni il 29 gennaio 2026, tra il pomeriggio e la sera, “mentre usciva dalla palazzina del carcere, passando nel corridoio, diretto al luogo dove avveniva l’interrogatorio. La lingua usata per interrogare era l’arabo e il dialetto egiziano. C’erano anche ufficiali che non avevo mai visto prima e un dottore specializzato in psicologia”.
Regeni “era ammanettato con le mani dietro la schiena, con gli occhi bendati. Era a circa 5 metri da me. Indossava una maglietta bianca, un pantalone largo blu scuro” e in seguito “l’ho rivisto che usciva dall’interrogatorio, sfinito dalla tortura. Era tra due carcerieri che lo portavano a spalla verso le celle. Ero in quella struttura, i miei familiari non sapevano nulla di me, non c’era nessun contatto col mondo esterno: la sensazione era quella di stare in un sepolcro. Sono stato sequestrato, detenuto e poi liberato senza un perché”.