X

Intervista a Massimo Salvadori: “Vi racconto le sei Caporetto della sinistra italiana”

Imagoeconomica via Governo.it

Imagoeconomica via Governo.it

Massimo L. Salvadori, uno dei più autorevoli storici italiani della sinistra, professore emerito all’Università di Torino dove ha insegnato Storia delle dottrine politiche. Se socialdemocrazia è una malaparola (Donzelli Editore) è il titolo del suo ultimo libro, da poco nelle librerie.

Perché e per chi “socialdemocrazia” è una malaparola?
La risposta viene dal fatto che la storia della sinistra italiana dal primo dopoguerra in poi si è dipanata senza che la socialdemocrazia non solo non vi avesse alcun ruolo significativo, ma venisse considerata a lungo un tradimento della lotta dei proletari per l’abbattimento del capitalismo. L’assassinio nel 1924 di Giacomo Matteotti – che alla vigilia della marcia su Roma aveva fondato il Partito socialista unitario di netta ispirazione socialdemocratica, contrario alla dittatura del proletariato, impegnato nella difesa del pluralismo politico e partitico, teso a riforme politiche, civili e sociali nell’ambito di una lotta per il socialismo da instaurare grazie ad un voto di maggioranza ottenuto in elezioni democratiche – pose in Italia una pietra tombale sulla socialdemocrazia. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la sinistra formata dal Partito comunista e da quello socialista – animata da un forte filosovietismo e convintasi che fosse iniziata la crisi epocale del capitalismo – respinse la socialdemocrazia come una capitolazione di fronte ai padroni delle ferriere, nonostante l’esempio di vigoroso riformismo messo in atto in Gran Bretagna dal Partito laburista di Attlee e poi soprattutto in Svezia. In Italia a partire dal 1947 la socialdemocrazia venne rappresentata dal Partito fondato da Saragat, ma non trovò che una udienza quanto mai minoritaria nelle masse lavoratrici. Alleatasi con la Democrazia cristiana, assunta una posizione filoatlantica e addossata a quella della Dc, la socialdemocrazia non poté mettere radici. Le elezioni del 1948 segnarono nel nostro Paese la seconda Caporetto della sinistra socialista e comunista, dopo la prima subita ad opera del fascismo. Come nel 1919-1922 una nuova barriera di “separatezza” si elevò tra la sinistra e la maggioranza degli italiani.

Il sottotitolo del libro è Le sei Caporetto della Sinistra italiana (1919-2022). Ce le illustra?
Cambiata completamente la scena dopo il crollo del sistema dei partiti che aveva segnato la storia della Repubblica dal 1945, nel 1994 le prospettive apparivano decisamente favorevoli alla coalizione “progressista” guidata dal Partito democratico della sinistra, la costola maggiore formatasi dalle ceneri del Pci. Ma i suoi calcoli risultarono completamente sbagliati. Berlusconi riuscì, in modo imprevedibile, a riunire intorno al suo neonato partito Forza Italia, la Lega secessionista e la neofascista Alleanza nazionale. Il Pds, in continuità con il Pci, aveva respinto l’idea di trasformarsi in un partito socialdemocratico, anche perché il Psi di Craxi aveva dato vita ad una brutta copia della socialdemocrazia. Berlusconi ebbe buon gioco a denunciare il Pds come l’incarnazione camuffata di un neocomunismo. Vennero le elezioni del 1994 e la coalizione berlusconiana vinse le elezioni a man bassa, al pari della Dc nel 1948. Fu quella la terza Caporetto della Sinistra. Mentre dominava il berlusconismo, con l’intento di rendere vincente il centro-sinistra venne fondato nel 2007 il Partito democratico, la cui ambizione era di riunire i democratici di varia provenienza, scrollandosi di dosso ogni residuo delle vecchie sinistre. Ogni riferimento al socialismo e alla socialdemocrazia fu bandito come espressione di una stagione definitivamente tramontata. La “questione sociale” cedette così la sua centralità alla “questione democratica”. Le ambizioni trionfalmente espresse nel 2007 cedettero ad un susseguirsi di frustrazioni, che culminarono nel 2013, quando le elezioni decretarono la quarta Caporetto di quella che continuava a essere definita “sinistra” (essenzialmente per il suo posto nello schieramento parlamentare e per le sue ascendenze). Si ripeté lo scacco del 1994. Il Pd si trovò al terzo posto dopo il centro-destra berlusconiano e il movimento 5Stelle, che aveva letteralmente fatto irruzione sulla scena politica agitando intenti antisistema e strappando al Pd numerosi elettori delusi. La situazione infelice del Pd parve risollevarsi con una nuova energia quando ad assumerne la leadership fu Matteo Renzi, il “rottamatore” che tra il 2014 e il 2016 si pose l’obiettivo di sbarazzarsi all’interno del partito delle inutili scorie, di dare una nuova incisività all’azione di governo, di cambiare la Costituzione. Sul piano ideologico Renzi liquidò come un ferro vecchio non solo il comunismo ma anche la socialdemocrazia. Era il tempo dell’“innovazione” contro la “conservazione”. Il prestigio di Renzi salì alle stelle quando alle elezioni europee del maggio 2014 portò il Pd al 40% dei voti, ma precipitò in seguito alla sonora sconfitta subita al referendum del dicembre 2016 per la riforma costituzionale. Il trionfo dei 5Stelle alle elezioni del maggio 2018, che ottennero il doppio dei seggi rispetto al Pd, superato anche dalla Lega, portò alla nascita del governo “giallo-verde”, guidato da Giuseppe Conte, con un indirizzo populista, sovranista ed euroscettico. Fu questa la quinta Caporetto di una sinistra divenuta sempre più incolore e indefinita, anzitutto sul piano delle politiche sociali. Proprio su questo terreno i 5Stelle condussero il loro attacco contro il Pd al fine di ulteriormente delegittimarlo. Il movimento grillino, con il proposito di mostrare di voler esso farsi carico del disagio sociale degli strati inferiori, varò il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, attribuendosi trionfalmente il merito di avere “abolito la povertà” in Italia. Il grande successo conseguito dalla Lega alle elezioni europee del 2019 indusse poi Salvini a nutrire l’ambizioso disegno di portare gli italiani alle urne e di formare un governo a sua guida: disegno sventato da Conte, che, con una manovra trasformistica, contrattò con il Pd una alleanza per dare vita a un governo “giallo-rosso”.

E il Pd?
Il Pd, in preda ad una cronica instabilità del gruppo dirigente e di correnti in contrasto reciproco, si adattò a una posizione di subalternità. Fu Renzi a far cadere all’inizio del 2021 questo pasticciato esecutivo e a creare le condizioni per affidare le redini a Draghi, che ottenne il sostegno di tutti i partiti, con l’unica eccezione del partito di matrice fascista guidato dalla intraprendente Meloni. Intanto il Pd, guidato da Zingaretti, era allo sbando. Fu Letta a sostituirlo, facendo del Pd la principale stampella di Draghi e adeguandosi alla linea di questo. Il governo cadde per le fibrillazioni che i primo luogo scuotevano i 5Stelle, essendo Conte e Di Maio in netto contrasto relativamente alla politica interna ed estera di Draghi, accusato dal primo di essere troppo prono all’Unione Europa e agli Stati Uniti e di mostrarsi insensibile ai problemi sociali e ambientali. A loro volta la Lega e Forza Italia esprimevano avversione per il legame privilegiato stabilitosi tra Draghi e il Pd. Tutto ciò favorì in maniera decisiva Fratelli d’Italia, i quali alle elezioni del settembre 2022 ottennero una clamorosa vittoria con il 26%, mentre al Pd andò il 19,1. Il potere venne così affidato alla coalizione di Destra-centro, rivelatasi presto tout court come destra. Fu questa la sesta Caporetto subita dal Pd, partito sulle cui spalle pesava di rappresentare miseramente le ultime spoglie di quella che un tempo che era stata bene o male la sinistra. La Caporetto n. 6 rappresentò congiuntamente, ancora una volta, la separatezza fra la maggioranza degli italiani e il residuo simulacro della sinistra e delle masse lavoratrici dal partito preposto a difenderle anzitutto sul piano sociale. La secca sconfitta del Pd guidato da Letta, risoltasi nell’avvento al governo degli eredi del fascismo, gettò il Pd in uno stato di sbandamento tale a far temere la sua uscita di scena.

Nel libro, fa una sorta di endorsement di speranza nei confronti di Elly Schlein.
La Schlein si è dimostrata una combattente sia nella sfida lanciata ai concorrenti nella competizione per la leadership del Pd sia dopo averla conquistata. Ha avuto il coraggio di candidarsi al compito quanto mai difficile ma parzialmente riuscito, come testimoniato dal risultato delle elezioni europee che hanno portato il Pd poco oltre la soglia del 24%, di risollevare un partito estenuato e scoraggiato. Il che è stato possibile perché la Schlein ha compreso la lezione che era stata dimenticata: che un partito di sinistra deve porre al centro della propria linea la lotta per la questione sociale, la quale in Italia continua a presentarsi in forme estremamente acute, e che la “separatezza” tra i lavoratori e un partito che voglia dare voce alla sinistra è causa di una bancarotta delegittimante senza ritorno. Si tratta di una lotta che naturalmente deve trovare sponde nell’Unione Europea e soprattutto nei partiti socialisti democratici. Si sa che il panorama che offrono questi partiti non è oggi confortante; ma occorre guardare a quelle che sono le loro migliori espressioni, come l’incisiva opera di riforme messa in atto dal primo governo di Pedro Sánchez: un esempio che mostra come la socialdemocrazia possa essere non già una mala ma una buona parola.