Il ricordo
Mariateresa Di Lascia, ricordo della fondatrice di Nessuno tocchi Caino e vincitrice del Premio Strega
A Napoli, negli anni 70, la fondatrice di Nessuno tocchi Caino e vincitrice del Premio Strega ha studiato e vissuto la sua prima vita da militante radicale. A Napoli, il 28 novembre, alle ore 18, la ricorderemo presso la libreria Mondadori della Galleria Umberto I, in occasione della presentazione del libro di Nessuno tocchi Caino “La fine della pena”
Giustizia - di Vincenzo Rocco
Questo bel ricordo di Mariateresa Di Lascia è anche un annuncio. A Napoli, negli anni 70, la fondatrice di Nessuno tocchi Caino e vincitrice del Premio Strega ha studiato e vissuto la sua prima vita da militante radicale. A Napoli, il 28 novembre, alle ore 18, la ricorderemo presso la libreria Mondadori della Galleria Umberto I, in occasione della presentazione del libro di Nessuno tocchi Caino “La fine della pena” in un evento dal titolo “Trent’anni ‘senza’ Mariateresa Di Lascia. Un vuoto dove passa ogni cosa”.
Ho avuto il privilegio di conoscere Mariateresa fin dall’inizio della sua storia politica. Ci incontrammo nella primavera del 1977, durante la campagna di raccolta firme per gli otto referendum, i primi proposti dal Partito Radicale. Furono tre mesi intensi: di giorno raccoglievamo le firme per strada, la sera davanti ai teatri, ai cinema. Mariateresa la riconoscevi immediatamente: un caschetto biondo e due occhi azzurrissimi, la gonna a lunghe falde e gli zoccoli olandesi, come si portavano allora. Spesso sorridente, qualche volta arrabbiata. Si distingueva da tutti, ne percepivi immediatamente lo spessore; in quell’atmosfera concitata e sovente caotica capiva al volo cosa accadesse, seguiva l’evolversi della campagna con l’intelligenza di chi sa cos’è logico, giusto fare. In quei tre mesi convulsi a stento ci salutavamo.
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Dopo la raccolta tornavo subito a casa a studiare per la maturità. Lei invece, da universitaria fuori sede, era iscritta a medicina, restava a ordinare i moduli, contare le firme e a comunicarne il numero via telefono alla segreteria nazionale a Roma assieme a Maurizio Griffo, all’epoca segretario della sede cittadina. Raggiungemmo il quorum necessario per indire i referendum: fu la grande vittoria di un piccolo partito di qualche migliaio di persone. Nell’ottobre fummo eletti lei tesoriere e io segretario dell’associazione. Tesoriere per motivi di cassa. Mariateresa era un genio nella raccolta fondi. Chiunque abbia mai fatto politica sa come sia difficile finanziare un partito in modo onesto: devi essere in gamba, trovare la gente giusta e convincerla. Lei lo sapeva fare davvero bene. Era in grado di affabulare, bastava ascoltarla e ne rimanevi conquistato. E poi, capiva, intuiva le persone. Ne comprendeva i sogni, le speranze e sapeva allinearli con la nostra politica. Il periodo a cavallo tra il ’77 e il ’78 è stato uno dei peggiori della Repubblica: Giorgiana Masi, Aldo Moro, solo per ricordare due nomi.
Nel gennaio del ‘78 la Corte Costituzionale cassò quattro delle otto proposte referendarie, ritenendole improponibili. In seguito, il Parlamento ne avrebbe stralciate altre due, lasciandone soltanto due al voto popolare: la legge Reale sull’ordine pubblico e quella sul finanziamento ai partiti. Appena saputa la notizia dell’intervento della Corte, al partito decidemmo di rispondere. Come sempre, con la nonviolenza. Era una bella mattina ed eravamo in sede solo lei e io. Indossammo due cartelloni in cui accusavamo lo Stato di impedire il voto popolare e ci avviammo a protestare davanti al Tribunale di Napoli. L’obiettivo era farsi notare, fermare o allontanare. Insomma, fare in modo da segnalare la nostra presenza alle autorità, ai giornalisti, a qualcuno in grado di riportare la notizia che i radicali manifestavano contro la sentenza dei giudici costituzionali.
Credo quella sia stata la più giolittiana delle nostre giornate politiche. Nel senso che chiunque avesse il potere di fermarci ci ha ignorati per ore. Appena arrivati ci siamo messi a passeggiare davanti all’ingresso del Tribunale. Gli avvocati, i giudici, i poliziotti entravano e uscivano, ma nessuno sembrava fare caso alla nostra presenza. Alla mezz’ora di inutile, ignorato passeggio, abbiamo preso la decisione coraggiosa, o totalmente incosciente, di entrare nel Tribunale. Il vecchio Tribunale di Napoli ha una struttura a base rettangolare con un grande patio interno a cielo aperto, circondato da un colonnato da cui si accede alle aule e agli uffici. Mariateresa e io ci siamo presi per mano e abbiamo attraversato, inquieti, l’ingresso. Niente. Nessuno ci guardava. Eppure, i cartelloni erano grandi, le scritte chiare, e noi andavamo avanti e indietro nel patio, girando attorno a una Jeep delle forze dell’ordine in sosta, davanti all’ufficio dei Carabinieri. A zonzo, tranquilli, ignorati, trasparenti come fantasmi.
Ancora un’ora di marcia a vuoto e, per una forma di disperazione politica, abbiamo deciso di autodenunciarci presentandoci davanti allo stanzone in cui erano assiepati i rappresentanti della legge. Erano stupiti, avrebbero preferito mandarci via e non avere problemi. Credo ci abbiano domandato più volte se desideravamo, davvero, essere fermati. Naturalmente non potevamo andar via senza ottenere nulla e ci siamo fatti denunciare per vilipendio alle istituzioni. Il giorno dopo sul Mattino è apparsa la nostra foto in un breve trafiletto. Altri compagni si sono poi aggiunti a quella azione solitaria, e tutti abbiamo rischiato dai due a cinque anni di carcere per reato d’opinione. Ma eravamo contenti, era il tipo di cose che si facevano con Mariateresa.