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Riccardo Muti: “In Italia abbiamo perso nostri valori, non sappiamo chi siamo, quando litigai con Pavarotti”

Riccardo Muti, musical director of the Chicago Symphony Orchestra takes in the applause of the audience after conducting the orchestra and chorus in Beethoven’s “Missa Solemnis” in D Major, Op. 123, Sunday, June 25, 2023, in Chicago. Sunday marked the last performance by Muti, 81, in Orchestra Hall during his 13 year tenure. (AP Photo/Charles Rex Arbogast)

Riccardo Muti, musical director of the Chicago Symphony Orchestra takes in the applause of the audience after conducting the orchestra and chorus in Beethoven's "Missa Solemnis" in D Major, Op. 123, Sunday, June 25, 2023, in Chicago. Sunday marked the last performance by Muti, 81, in Orchestra Hall during his 13 year tenure. (AP Photo/Charles Rex Arbogast)

Qualcosa non va nell’educazione musicale a scuola: “Siamo convinti che educare alla musica i nostri ragazzi consista nell’obbligarli a suonare il piffero, traendone orrendi suoni striduli”. È così che abbiamo dimenticato Alessandro Scarlatti, un “padre della musica”, e non studiamo Giuseppe Verdi. A dirlo in un’intervista a Il Corriere della Sera è Riccardo Muti, soltanto il preludio a un discorso più ampio sulla cultura italiana.

“Abbiamo perduto certi valori. Dal punto di vista artistico non siamo i degni continuatori di una tradizione che è la più grande al mondo. Non lo dico perché sono italiano; anche se ogni mattina mi alzo con un certo orgoglio di essere nato nel nostro Paese. La musica classica viene adoperata come sigla di pubblicità. Seul ha ventidue orchestre sinfoniche, di cui quattro nate negli ultimi anni. Noi ne abbiamo due”. È che “non sappiamo più chi siamo. Abbiamo reciso le nostre radici”.

È per la stessa ragione se all’estero gli italiani non vengono presi cosi sul serio, “una cosa molto grave, che ho combattuto per tutta la vita. Ma la colpa è anche di noi italiani, che incoraggiamo questo modo circense di cantare, per cui un certo tipo di pubblico aspetta l’acuto. Tipo il Vincerò, di cui, me lo lasci dire, non se ne può più” perché “dalla musica italiana ci si attende il languore infinito, lo strillo senza misura”. Stoccata anche a Papa Francesco: “Con lui di musica in Vaticano credo se ne faccia poca, non come ai tempi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che era un musicista”.

Nessuna rivalità con Abbado. “Una stupidaggine messa in giro da falsi intenditori. Eravamo di generazioni diverse, abbiamo fatto un percorso diverso. E ci siamo sempre stimati”. E invece è vera la lite con Luciano Pavarotti, “una delle voci più straordinario create dal Padreterno”. Muti racconta come fecero pace. “Organizzai un concerto per sostenere una comunità di tossicodipendenti. Pavarotti venne apposta dall’America. Non volle una lira, si pagò lui il biglietto aereo. Mi misi al pianoforte, cantò per un’ora. Il programma, preparato da lui, partiva dall’Orfeo ed Euridice di Gluck e arrivava alle canzoni napoletane attraverso Verdi e Puccini. Quando lessi il primo brano — ‘Che farò senza Euridice?’ — rimasi sgomento: si confaceva a un tenore castrato settecentesco, o a un mezzosoprano, più che a una voce eroica come quella di Pavarotti. Però mi adattai alle sue scelte; e fu un grande successo. Il concerto, nel Palasport di Forlì gremito, fu ripreso per metà dalla Rai e per metà da Mediaset. Un miracolo”.

Il più grande di sempre? “Quando lo chiesero a Rossini, rispose: Beethoven. ‘E Mozart?’, gli dissero. E lui: ‘Mozart è fuori categoria’. Mozart è un artista indispensabile. Senza non si può vivere”. Fiducioso sul governo Meloni: “Al di là delle critiche che si possono fare, è un governo che cerca di fare bene. Alla fine lo giudicheremo”.