Il gruppo automobilistico in crisi
Perché Tavares ha lasciato la Fiat: via l’ad di Stellantis, c’è poco da gioire per il governo Meloni
“Era ora che se ne andasse”, esulta Gasparri. La maggioranza convoca Elkann in Parlamento per scongiurare la chiusura delle fabbriche. Ma sarà dura...
Cronaca - di David Romoli
Chissà se stavolta John Elkann si degnerà di accogliere l’invito rivoltogli dal presidente della commissione Attività produttive della Camera Gusmeroli, a nome di tutte le forze politiche di maggioranza e opposizione, e si presenterà di fronte al Parlamento per illustrare cosa vuole fare Stellantis in Italia. Poco più di un mese fa, alla fine di ottobre, aveva declinato l’invito affermando di riconoscersi nelle posizioni dell’amministratore delegato, il portoghese Carlo Tavares. Il quale aveva lasciato tutti i partiti, di destra, sinistra e centro in un’audizione in cui aveva evitato qualsiasi impegno, chiesto sostegni, fatto capire che per i dipendenti italiani si preparavano tempi duri.
Nel giro di un mese, evidentemente, Elkann e gli azionisti con lui hanno smesso di riconoscersi in Tavares. Formalmente si è dimesso ma tutto lascia pensare che sia stato spinto con una certa fermezza verso quel passo. Pare che comunque si potrà riconsolare con una buona uscita da 100 milioni: un’ipotesi non verificata che la 5S Appendino definisce “indecente” ma non riesce a ingoiare con facilità neppure la maggioranza. Eppure, il giorno dopo l’addio dell’ad, nonostante il tonfo delle azioni Stellantis in borsa, che ha toccato un crollo del 10%, nei partiti come nei sindacati si respira un’atmosfera di sollievo e ottimismo. Tutti concordano nel ritenere, come esplicita tra i tanti il capo dei senatori FI Gasparri, che Tavares non si lascerà dietro “un buon ricordo”. “Era ora che se ne andasse”: è stata più o meno l’ultima dichiarazione del capogruppo Foti prima di passare ad altro e più alto incarico, ministro degli Affari europei.
Insomma, la dipartita viene vista come il segno di una svolta, di un radicale cambio di passo e il fatto che Elkann stesso si sia premurato, domenica sera, di avvertire personalmente la premier e il capo dello Stato viene interpretato come un segnale in questo senso. Nella speranza che non si tratti del classico wishful thinking e dunque tenendo le dita ben intrecciate perché stavolta non si può proprio dare torto a Conte, che ieri era a Pomigliano, quando ricorda che Tavares va, i lavoratori a rischio restano e che il governo deve intervenire con misure concrete: fondi a sostegno sia del settore che a sostegno del reddito dei cassintegrati. Il ministro delle Attività produttive Urso è passato all’azione, o almeno non è rimasto del tutto inerte. Ha alzato il telefono, parlato con Elkann, confermato per il 17 al ministero il tavolo che dovrebbe sbrogliare la matassa. Ma al momento non c’è risposta all’invito in Parlamento e non risulta che la premier intenda convocare a Palazzo Chigi Elkann, che guiderà l’azienda sino alla nomina del nuovo ad, in pole position l’ad Renault Luca de Meo. Non prima della metà dell’anno prossimo e Calenda giura che la gestione di John per un periodo così lungo “lo terrorizza”.
Lo scontro all’interno dei vertici Stellantis era in parte sull’eventuale fusione con Renault ma soprattutto sugli strumenti con cui fare fronte alla crisi del settore, che in Italia è appena un po’ più grave che altrove ma è diffusa ovunque, in seguito alle difficoltà enormi create dalla transizione all’elettrico coniugata con l’agguerrita concorrenza cinese. La sola via d’uscita, per l’ormai ex ad, è tagliare i costi, cioè smantellare impianti e sfoltire con le cesoie la forza lavoro impiegata. Il solo fatto che il portoghese non ci sia più suona quindi come una buona notizia. Bisognerà solo vedere se è davvero così. Perché la crisi, appunto, non è solo italiana.
Ieri è iniziato negli stabilimenti tedeschi Volkswagen lo sciopero a oltranza contro la prevista chiusura di tre stabilimenti e il licenziamento di migliaia di dipendenti. Il negoziatore della IG Metal, il sindacato metalmeccanico tedesco, ritiene che si potrebbe arrivare alla battaglia contrattuale “più dura mai vista dalla Volkswagen” e non è una iperbole. Alle origini della crisi della marca d’eccellenza tedesca ci sono le stesse componenti dalle quali derivano i guai Stellantis: calo delle vendite (100mila immatricolazioni in meno in Europa e oltre 200mila auto vendute in meno negli Usa nel trimestre estivo a paragone dello stesso periodo nel 2023 per quanto riguarda Stellantis), transizione all’elettrico gestita peggio che malissimo, concorrenza cinese aggressiva e vincente. Su un terreno già così bombardato rischiano di abbattersi nei prossimi mesi i dazi di Trump.
Solo che il problema non è puramente contingente: un’intera fase storica della produzione di massa si sta radicalmente trasformando e non è affatto detto che si tratti di una parentesi dopo la quale l’automotive tornerà a essere quella di prima, dunque il motore della crescita. Ma a fronte di questa mutazione storica nessuno appare all’altezza della sfida. Non in Italia, come rinfaccia l’opposizione al governo, ma la realtà è che l’Italia da sola sarebbe comunque in grado di fare ben poco. La sfida è per l’Europa e essere assente e inerte è proprio l’Europa.