Il centenario
Lucio Colletti, il marxista che credeva nella libertà
Il discepolo terribile di Galvano della Volpe mise in discussione l’impianto teorico del “Capitale” innescando negli anni a venire una viva discussione che prese piede all’estero ma molto poco in Italia
Editoriali - di Michele Prospero
L’8 dicembre di cento anni fa nasceva Lucio Colletti. Il filosofo che molto contribuì alla diffusione dei prodotti del marxismo italiano oltreconfine, ad un certo punto della sua riflessione così originale affossò la tradizione di provenienza con un doloroso abbandono. Riconosciuta l’importanza teoretica della figura, è evidente che il suo divorzio lasciò macerie non ancora rimosse. Con un dialettismo che egli avrebbe disprezzato, si può dire che, se si intende davvero tornare a pensare criticamente sulle orme di Marx, è necessario ripartire proprio dalle aporie logiche denunciate da Colletti. Si tratta, in sostanza, anche maneggiando i suoi attrezzi, di sostituire quei pezzi arrugginiti della macchina teorica che avevano inceppato il programma scientifico ricavato dal pensatore di Treviri.
Nella cultura italiana la presenza di Colletti è oggi garantita dalla dedizione di un allievo, Luciano Albanese, che ha tra l’altro riproposto i corsi di filosofia politica tenuti all’Istituto Gramsci negli anni 50 e le mitiche lezioni sul Capitale svolte alla Sapienza. L’impressione confermata da queste pagine inedite è che – fatto piuttosto raro – la chiarezza a tutti nota dello stile discorsivo del Colletti scrittore si sposa pienamente con la trasparenza del docente che, grazie al suo argomentare raffinato e incalzante ogni tanto intervallato da un “dico”, sa catturare l’uditorio.
Fuori dall’Italia la fama del discepolo per certi versi terribile di Galvano della Volpe non si è mai spenta. Anzi, il suo nome è ancora adesso tra i più citati nella letteratura specialistica. Determinante per la sua fortuna è stata senza dubbio l’introduzione alla prima edizione inglese delle opere giovanili di Marx. E però soprattutto l’impatto delle ricognizioni gnoseologiche su Marx ed Hegel e le messe a punto etico-politiche su Rousseau e Marx continuano ad essere visitate nelle ricerche.
Non va trascurato che anche le categorie elaborate nella stagione del distacco, che prende quota a partire dall’intervista del 1974 per culminare nei saggi dell’inizio degli anni 80, all’estero sono state al centro di una più accorta valutazione rispetto a quanto accaduto da noi. Se si eccettua la disponibilità all’interlocuzione su aspetti specifici della logica aristotelica venuta anzitutto dalla scuola di Enrico Berti, poco altro di notevole si è registrato. Emanuele Severino, ad esempio, liquidò come irrilevante la disputa sulla differenza, che Colletti riprese da Kant, tra contraddizione logica (inosservanza delle condizioni stesse del pensare) e opposizione reale (collisione di forze effettuali la cui pensabilità non comporta alcuna ricusazione dei capisaldi della coerenza logica).
Vista la centralità che nell’impianto di Marx riveste la tematica del conflitto e delle contraddizioni interne al funzionamento del sistema sociale, la questione si rivela imprescindibile. Giusto per sondare l’ampiezza dell’attenzione che le opere di Colletti hanno conquistato, merita di essere annoverato Graham Priest, un logico inglese di cui ora sono state tradotte anche in Italia alcune pubblicazioni: contro le tesi dell’Intervista politico-filosofica, egli sostiene le ragioni del “dialeteismo” per cui vero e falso non si escludono a vicenda. Non a caso, oltre ai simboli matematici, Priest ricicla i testi dei neoplatonici, i quali ritenevano che per “l’Uno fossero vere cose contraddittorie”, e di Eckhart, per il quale Dio è essere e non-essere insieme. Una simile impostazione, con le ricadute mistiche che piovono in mezzo alle inferenze deduttive, finisce per corroborare le obiezioni di Colletti al risvolto irrazionale dell’approccio che tiene ferma la contraddizione dialettica (A è al contempo non-A).
Ma è in Germania che le posizioni di Colletti sono state discusse in profondità. Tra i più significativi recuperi delle sue vedute vanno menzionati gli scritti di Gerhard Göhler, che ricalca le medesime censure mosse dal filosofo italiano all’impresa marxiana di critica dell’economia politica. Fra le contestazioni maggiormente incisive, invece, si segnalano quelle di Andreas Arndt, Ingo Elbe e Dieter Wolf. Interessanti, in quanto condotte con argomentazioni che non sarebbero dispiaciute allo stesso Colletti, paiono gli studi di Wolf: egli difende in maniera convincente la struttura scientifica dell’indagine di Marx dal rilievo, che giudica non persuasivo, secondo cui il ricorso alla nozione hegeliana di contraddizione logica per rimarcare la doppia composizione della merce minerebbe in radice l’intera impalcatura dell’analisi del capitale. Perché Colletti dopo vent’anni di complicità intellettuale intensa si pose al di fuori dell’officina di Marx? Per cogliere le cause originarie dell’allontanamento, bisogna prendere in considerazione una traccia che è presente fin dal secondo volume del suo Il marxismo e Hegel, e che poi ancora più marcata si offre nelle lezioni sul libro I del Capitale.
Già negli anni 60 si era spinto troppo in là nel tirare le estreme conseguenze di una pur affascinante intuizione sulla ipostasi reale, che però avrebbe compromesso la sua caccia inflessibile al materialismo dialettico. Il procedimento di ipostatizzazione, che Marx rigettava quale vizio della logica speculativa di Hegel, creava, a detta di Colletti, idee certamente rovesciate eppure scolpite oggettivamente nelle istituzioni sociali della modernità. I capovolgimenti, che anche il primo libro del Capitale imputava ad Hegel e agli economisti classici, per Colletti risultavano essere dei ribaltamenti depositati nelle trame effettive della società. In tal senso, la metafisica non era una semplice fuga concettuale, che sfociava in una rappresentazione distorta dell’empirico, ma racchiudeva nelle sue inversioni l’esistenza obiettiva degli enti storico-sociali.
Accogliendo la locuzione “astrazione reale”, cioè decifrando il feticismo come descrizione di un mondo in sé rivoltato, Colletti si accodava ai postulati dei suoi bersagli preferiti: a Engels, che invocava la dialettica poiché rispecchiava la realtà della contraddizione logica, e ai francofortesi, assai ostili alle forme, all’intelletto. Resosi conto che non reggeva, sul versante epistemologico, l’assunzione di una intrinseca contraddittorietà dell’esperienza, Colletti maturò la cesura e confutò anche la formula dellavolpiana di “dialettica storica”. In effetti, l’accenno al molteplice come ad entità che, nel loro stesso modo di essere, violavano il principio di non-contraddizione, era stato estorto al suo maestro da un incessante processo politico istruito dai “compagni hegeliani”, che indussero della Volpe ad una sorta di abiura galileiana per sottrarsi all’accusa di non concepire il salto qualitativo verso un altro modello sociale.
L’ossessione collettiana per le implicazioni della decisiva distinzione tra opposizione reale e contraddizione logica aveva una sicura base nello smascherare i limiti gnoseologici del marxismo corrente in Urss come in Occidente. Eccessivo, tuttavia, sembrava coinvolgere anche il Moro nell’ordine di demolizione per carenze logiche manifeste. Al di là di qualche suggestione letteraria, derivante più che da un ripasso della Scienza della logica dalla frequentazione assidua della grande letteratura, da cui erano estratte le immagini delle stranezze teologiche dell’universo delle merci, Marx non strapazzava affatto gli strumenti formali della conoscenza.
Le contraddizioni, la totalità, rimanevano per Marx delle costruzioni ingannevoli tipiche di chi accantonava il problema cruciale della genesi del plusvalore e quindi credeva in beni materiali che si producevano da sé, in manufatti realmente sovrasensibili. Il sostrato (il lavoro vivo) era il fondamento concreto che, se scandagliato e non occultato, avrebbe impedito le raffigurazioni ambigue del capitale come spirito, esse sì sottosopra e misticheggianti giacché incapaci di svelare gli arcani – la “cosa” sociale spacciata per solido cristallo senza il furto di tempo di lavoro – di una vita spalancata dalla immane raccolta di merci. Il pungolo analitico del Colletti autocritico resta comunque un positivo stimolo da afferrare per schivare le fallacie logiche che rischiano di inficiare una rigorosa lettura critica del moderno.