Polemiche sui costi
Ministri non parlamentari, la maggioranza vara gli aumenti di stipendio: rispunta anche la norma “anti Renzi”
Poco più di 7mila euro lordi al mese. È l’aumento proposto nell’emendamento presentato dalla maggioranza alle legge di Bilancio in discussione per ministri e sottosegretari non deputati.
Proposta che, come sempre quando si parla di costi della politica, genera polemiche sulla scia delle battaglia “anti casta”, anche perché come emerso nei giorni scorsi il taglio dei parlamentari votato proprio per strizzare l’occhio ad un certo populismo non ha poi portato a risparmi nei costi di gestione, vedasi il caso del Senato.
I conti li fa oggi il Sole 24 Ore: sono 18 i ministri e sottosegretari in carica che non hanno un seggio in Parlamento. Tra i beneficiari vi sono ministri come Andrea Abodi, Carlo Nordio, Giuseppe Valditara, Marina Elvira Calderone, Alessandro Giuli, Guido Crosetto, Matteo Piantedosi, Alessandra Locatelli e Orazio Schillaci.
Per tutti loro, ai poco più di 9mila euro lordi al mese che già intascano, vanno aggiunti 3.503,11 euro della diaria che spetta a deputati e senatori e i 3.690 euro di rimborsi per l’esercizio del mandato. A questi poi bisogna sommare altri 1.200 euro per spese telefoniche e rimborsi di viaggi.
Il costo complessivo della misura, secondo quanto stimato nel testo dell’emendamento, è pari a 1,3 milioni di euro l’anno. Durissimi i commenti alle opposizioni. “Mentre gli italiani faticano ad arrivare alla fine del mese, il governo propone di aumentare lo stipendio ai ministri. È una vergogna”, scrive su X Enrico Borghi, capogruppo di Italia Viva al Senato. “L’emendamento che aumento stipendi a ministri e sottosegretari è indecente”, dice invece Marco Grimaldi, capogruppo di AVS nella commissione Bilancio della Camera,
Lo stesso emendamento prevede che i componenti del governo, i parlamentari italiani e quelli eletti a Bruxelles, oltre ai presidenti di Regione, non potranno più svolgere incarichi retribuiti “in favore di soggetti pubblici o privati non avente sede legale o operativa nell’Unione europea”.
Si tratta di quella già definita “norma anti Renzi”, proposta già da Carlo Calenda e da Giuseppe Conte nella loro guerra contro il leader di Italia Viva per i compensi ottenuti dall’ex premier dalla fondazione del principe saudita Mohammad Bin Salman.