L'ex direttore dell'Agenzia delle entrate
Ruffini pronto a lanciare il nuovo Ulivo, ma Schlein resta scettica
Nell’intervista al “Corriere” l’avvocato tributarista mena fendenti contro il governo e sembra progettare un nuovo centrosinistra. Ma Schlein è scettica
Politica - di David Romoli
Come segno dei tempi è il più eloquente. Serve una gamba centrista senza la quale il centrosinistra non sarebbe tale neppure di nome e non avrebbe grandi chances di vittoria alle elezioni politiche. Urge pertanto scovare non un partito o una linea ma un nome: il “federatore” o accalappiavoti che dir si voglia. Il potestà straniero che dovrebbe mettere in riga i leader dei piccoli e rissosi leader centristi e concentrare su di sé i voti di un elettorato che tutti assicurano esserci anche se dove sia nessun lo sa. Di nomi ne circolano da un pezzo tre o quattro ma il più accreditato ha fatto il passo necessario per entrare di fatto in campo, pur negando fieramente tale intenzione. Il senso delle dimissioni di Ernesto Maria Ruffini da direttore dell’Agenzia delle Entrate, a onta dei dinieghi, pare essere proprio questo.
Avvocato tributarista, figlio del più volte ministro democristiano Attilio Ruffini, nipote dell’arcivescovo di Palermo cardinal Ernesto Ruffini, fratello del giornalista Paolo, oggi prefetto del Dicastero per la Comunicazione del Vaticano, primi passi nella professione presso lo studio dell’ex ministro Augusto Fantozzi, Ruffini ha il pedigree perfetto del rampollo dell’aristocrazia cattolica impegnata. Al vertice di Equitalia dal 2015 e dell’Agenzia delle Entrate dal 2020 ha l’esperienza necessaria per ambire a ruoli di rilievo anche maggiore nelle istituzioni. Su di lui hanno deciso di puntare i vecchi ulivisti: Romano Prodi, che dell’intera operazione è regista e mallevadore nemmeno troppo occulto, Rosy Bindi, Bruno Tabacci, che per la verità quanto a abilità nelle manovre politiche è a dir poco discutibile. Lui si schermisce, nega intenzioni combattive.
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Però l’intervista al Corriere con cui spiega le sue dimissioni è un manifesto politico. Attacca frontalmente chi descrive i funzionari dell’Agenzia come “estorsori di un pizzo di Stato”, e si tratta di Giorgia Meloni, e con chi sostiene che la medesima Agenzia “tiene in ostaggio le famiglie”, e questo è Matteo Salvini. “A volte sembra che contrastare l’evasione sia una colpa”, sbotta e non c’è bisogna di esplicitare a chi sia rivolta la frecciata. Sembra, prosegue come un panzer, “che ci si preoccupi più di questo che degli ospedali che chiudono, delle scuole che non hanno fondi, della carenza di servizi perché le risorse sono insufficienti”. “Non scendo in campo”, specifica e ironizza sulla figura del federatore e dei “sedicenti salvatori della Patria” ma rivendica “la libertà e il diritto di parlare di bene comune e senso civico”. A voler essere appena un po’ maliziosi significa che per ora si limiterà a farsi sentire spesso e se son rose fioriranno, cioè se si costruirà così l’immagine di un leader politico scenderà in quel campo che per ora diserta.
Di certo le reazioni sono abbastanza rumorose da giustificare l’eventuale ambizione. La Lega risponde a muso bruttissimo: “Gli auguriamo le migliori fortune. Lontano dal portafogli degli italiani”. FdI è solo più urbana nei modi: “C’è una certa contraddizione nell’esprimere disagio per aver dovuto lavorare con un governo che parlava di pizzo di Stato e poi dire che i massimi risultati nella lotta all’evasione li ha ottenuti negli ultimi anni”. La Russa è salomonico: “Ha fatto bene a dire quello che pensa. Non so se abbia detto bene ma ha fatto bene a dirlo”. Concorda il viceministro Ciriani: “Se si sentiva a disagio con questo governo ha fatto bene ad andarsene”. Il meno paludato è il capogruppo forzista Gasparri: “Auspicavo le dimissioni”. Insomma, con l’eccezione di Lupi che elogia “l’uomo di valore, servitore dello Stato”, a destra nessuno rimpiange l’ormai ex direttore. Applaude invece la sinistra tutta, con il responsabile economico del Pd Misiani che trova modo di mettere in contrapposizione l’austera serietà del dimissionario con “gli sciagurati politicanti che usano la propaganda rozza e incompetente per lisciare il pelo agli evasori”. In campo, volente o nolente, Ruffini c’è già quasi.
Non che tutti siano proprio convinti di puntare su di lui, però, e tra gli scettici spicca Elly Schlein. Quanto a carisma l’uomo è raso terra e questo preoccupa la leader del Pd. Sul mettere in campo un uomo il cui nome significa tasse, dietro la retorica d’ordinanza, ha qualche corposo dubbio. Forse sospetta anche che Prodi, affezionato al suo modello e alla sua esperienza, insomma all’Ulivo, mediti per il cattolicissimo qualcosa in più che la leadership del centro. Magari quella candidatura a premier che Elly già considera propria. Come che sia, il suo candidato è l’altro federatore in pectore, il sindaco di Milano Giuseppe Sala, inviso però proprio alla minoranza moderata del suo partito nonostante le apparenti affinità politiche.
Tra i concorrenti non dichiarati c’è anche Franco Gabrielli, ex capo della Polizia, ma anche qui l’idea di un capo della Polizia leader politico qualche bocca la fa storcere. Sullo sfondo campeggia Paolo Gentiloni, che non è centrista ma come candidato premier si suppone basti a convogliare i voti centristi senza bisogno di federarli. Cosa debba essere questo centro in cerca di federatore, in cosa si differenzi dal Pd, quali rapporti possa stringere con il bellicoso M5S di Conte non è chiaro e comunque non ne parla nessuno. Basta il testimonial. Ma il primo a sapere che non è così è proprio Ruffini: “Fatico a pensare che per cambiare le cose bastino i singoli. Tendo a credere nella forza delle persone che collaborano per un progetto comune”. Oltre al federatore, però, al momento latita anche il progetto.