Il docufilm sulla band di Liverpool

‘Beatles ’64’, il documentario che racconta la storia dei ‘Fab Four’

È il 1964 quando i Beatles sbarcano in America e Paul, John, Ringo e George si ritrovano a risollevare migliaia di ragazzi che stavano vedendo il loro mondo sgretolarsi. Per la gioventù americana di quegli anni la loro musica diventa qualcosa a cui aggrapparsi e in cui trovare una speranza per il futuro

Spettacoli - di Graziella Balestrieri

15 Dicembre 2024 alle 13:23

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AP Photo, File
AP Photo, File

No. Se ve lo state chiedendo la risposta è no. La domanda è sempre la stessa: ci stancheremo mai dei Beatles? No. A quanto pare nessuno ha intenzione di dimenticare per un secondo Paul, John, Ringo e George. Il motivo in realtà è abbastanza semplice, considerando che i Beatles hanno più di ogni altro gruppo nella storia della musica non solo cambiato e influito sui processi e le trasformazioni musicali, ma hanno messo le mani e lasciato le loro impronte nella società, nei cambiamenti culturali. Non solo nella loro patria, ma anche dall’altra parte dell’oceano, volontariamente e non, e si sono ritrovati al posto giusto, negli anni giusti o in quelli sbagliati, dipende dai punti di vista. Loro c’erano, con il loro entusiasmo, la loro voglia di muoversi, di suonare, cantare, sorridere e includere.

È il 1964 e l’America piange il volto giovane del suo Presidente, quel John Fitzgerald Kennedy, di quell’immagine di speranza ricoperta di sangue per le strade di Dallas. L’America piange il mito del cambiamento, piange il sorriso giovane di quel ragazzo che per la prima volta era apparso in tv, che aveva donato speranze, unione e trasformazione in una società dove la libertà urlata faceva da contrasto con una feroce segregazione razziale. È il lutto che i Beatles, giovani, ventenni, trovano nell’America. In quel momento l’America non era più la terra dei sogni e delle speranze. Il sogno americano di giovinezza e libertà era stato assassinato insieme al loro Presidente, quel giorno del 22 novembre 1943. E allora una nazione in lutto, i giovani, il futuro in lutto. Il dramma di come superarlo questo lutto.

Così il documentario che trovate su Disney Plus, dal titolo Beatles 64, diretto da David Tedeschi, prodotto da Martin Scorsese, raccoglie la documentazione certosina dei documentaristi Albert e David Maysley, che ebbero il compito di filmare quel viaggio in 16mm che durò tre settimane. Beatles 64 è un enorme viaggio in realtà, non solo di tre settimane, ma di un momento storico particolarissimo, importantissimo, dove il mondo non sarebbe più stato lo stesso, con testimonianze inedite e no, pezzetti di società che si attaccano alle figure dei quattro ragazzi venuti da Liverpool, che si aggrappano alle loro giacche per non sprofondare. Beatles 64 racconta “lo sbarco dei Fab four” in America, quel 17 febbraio del 1964. Racconta frammenti di storia della società che si sgretolano e si rimettono insieme, usando come strumento la musica che nelle parole di chi ora ha quasi ottant’anni come unica medicina per lenire il dolore.

I Beatles che scelgono di cantare brani di artisti di colore, perché la musica abbraccia tutti, non esclude nessuno. I Beatles riescono a portare in quella società, artisti ai quali non è permesso esibirsi, per il colore della pelle, come i The Miracles o Barrett Strong. Una generazione dilaniata e disgregata quella americana, una generazione che ha colto nella venuta dei Beatles l’unica possibilità per ritrovare l’entusiasmo perduto. Perché la musica ha lo stesso potere del fuoco o dell’acqua, come testimonia il regista David Lynch, allora presente tra quei ragazzi urlanti e scatenati. In un qualche modo bisognava far sentire che quella generazione soffriva in maniera devastante l’assassinio di John F. Kennedy, ma che voleva andare avanti. Nessuno in America sembrava dar retta a quel loro dolore e a quella voglia di ripartire lo stesso, a quella voglia di non lasciar morire quelle idee per le strade di Dallas.

E allora i Beatles, e allora quella voglia di divertirsi, quella frase di Paul McCartney che dice: “La nostra musica non è cultura, è una grossa risata”. Già, ridere dopo aver versato le lacrime del mondo, ridere per sotterrare l’ipocrisia e seppellire quel dolore. In fondo si sa, “una risata vi seppellirà “. E saranno quei dieci minuti all’Ed Sullivan Show, che cambieranno i sentimenti di negatività di una fetta importante della società giovanile, saranno quei dieci minuti ad essere la risata che seppellirà il dolore. I Beatles, con i loro sorrisi giovani, freschi. Le loro battute sempre pronte e il loro entusiasmo, creano a loro volta una volontà per chi li ascolta di lasciarsi andare al divertimento. E allora chi non capisce l’isteria, le urla, quel rumore pazzesco, assordante di chi li andava a vedere, di chi li aspettava sotto agli alberghi, di chi li inseguiva ovunque, non capisce quanto quei ragazzi avevano bisogno di urlare e divertirsi. I Beatles avevano aiutato una generazione intera ad uscire da quel silenzio assordante che solo la morte può portare, un silenzio che per natura non può appartenere a chi ha vent’anni.

E allora le urla, il rumore, spazzare via quel silenzio assordante, le lacrime ora non sono più di dolore ma solo gioia. E poi ci sono i Beatles che si scontrano con l’ipocrisia della società, che vengono maltrattati dagli addetti ai lavori dell’ambasciata inglese a New York. Li guardano e li trattano come fossero degli appestati e non come star che fanno onore alla loro terra, vengono considerati come dei giovanotti vestiti male e che vengono dalla provincialissima Liverpool. Così John, Paul, Ringo e George si sentono quasi umiliati da quelle persone, ma nello stesso tempo sono felici di non essere come quella fetta della società. E lo stesso Paul a mettere il marchio definitivo su chi e che cosa sono i Beatles. “Alla fine loro lavoravano nell’ambasciata, noi invece eravamo giovani e giravamo il mondo divertendoci, facendo musica e facendo divertire gli altri. A noi essere come quei signorotti nobili non interessava”.

L’America che mostra i muscoli non esiste più o, meglio, è stanca di mostrarli, i giovani e la maggior parte della società sono stanchi dei modelli dell’uomo virile che imbraccia il fucile e corre in Vietnam per “salvare” la patria. L’uomo sexy a tutti i costi, dominante, viene quasi spazzato via (con tutto il rispetto del mondo possibile e immaginabile) da quattro ragazzi che non vogliono un mondo dove i sentimenti debbano essere distinti o classificati come uomo e donna. No, i Beatles non fanno nessuna distinzione. Per Paul, John, Ringo e George si può essere quello che si vuole e anche un uomo può piangere, dimostrare la propria fragilità senza sentirsi uno scarto della società. Ma L’America è sempre stata un grande ed enorme contrasto e tra la voglia di libertà e di unione dei giovani, i Beatles si scontravano con una fascia di popolazione che non capiva le urla, il perché di questo entusiasmo, di questi ragazzi venuti dalla vecchia Inghilterra a portare di gioia.

L’America della libertà e l’America bigotta, anche questo è Beatles 64, ancora di più a dimostrazione di quanto la loro musica sia stata un’occasione, l’occasione per i giovani di poter rinascere. È palese questo sentimento e questo effetto dei Beatles sui giovani americani, nelle parole oggi, di uno dei testimoni: “Mio padre non si è mai ripreso dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, noi si”. Ricoprire ogni dolore, curare le ferite, passare una mano sul cuore e rendere il sangue non più morte ma vita. I Beatles sono stati la risposta a quel colpo di fucile alla testa che aveva assassinato il presidente John F. Kennedy, sono stati il giubbotto antiproiettile di un’intera generazione e di quelle a venire.

15 Dicembre 2024

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